L'altra montagna

un percorso non alpinistico tra pascoli, abeti e malghe

Creato da:
Andras
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Ultimo aggiornamento: 01/10/2022
La parola montagna sembra avere oggi una forza evocativa straordinariamente grande ed immediata nella cultura popolare. Il suo suono richiama subito dei ben sedimentati cliché pubblicitari: la purezza dell’aria, il verde dei prati, una natura “incontaminata”, l’ospitalità “tipicamente alpina”, la rusticità ruspante del montanaro, il distacco dal mondo del lavoro e dalla grigia quotidianità ed infine un senso “misurato, addomesticato” dell’avventura. Si tratta di un immaginario che si è costituito nell’arco degli ultimi tre secoli e che ha lasciato l’impronta di chi l’ha pian pianino generato, vale a dire le classi europee abbienti di estrazione urbana, incontaminate dal lavoro manuale e vogliose di distrazioni dal couleur romantico e selvaggio. L’intensificarsi del progresso tecnologico e la sua penetrazione capillare nelle vite urbane ha poi fatto il suo per aumentare la fame di una presunta verginità antropologica e, paradossalmente, allontanare ancora di più il mondo extraurbano del XIX secolo dalla visuale del cittadino – il ben noto aneddoto del bambino che crede che il latte sia generato dal supermercato non è che il culmine di un processo di alienazione durato un secolo. A complicare ulteriormente il quadro si è messo lo stesso mondo rurale e montanaro. Ben presto l’iniziale e secolare diffidenza della gente di montagna verso i forestieri si è infranta. Già a partire dalla metà del 19º secolo si sono trovati dei rappresentanti delle comunità alpine a fare da promotori turistici delle proprie vallate. Chi come guida di montagna per i signori di città, chi attraverso dei gruppi folkloristici che seguivano gli inviti dell’altra sponda dell’Oceano Atlantico per sbarcare negli Stati Uniti – la ben rodata macchina promozionale del folklore tirolese faceva già scintille ai tempi del fin de siècle. Mentre poche località dell’arco alpino potevano inizialmente raccogliere la proverbiale manna dal cielo di un turismo d’élite, molte comunità di montagna dovevano ancora per decenni combattere nello stretto ring dell’economia di sopravvivenza. Molti di quei montanari per disperazione e per speranza lasciavano i ripidi ed avari pendii per rincorrere la fortuna all’estero, nelle miniere ed infine nelle fabbriche di pianura. Numerosi borghi e masi di medio-alta montagna sono stati così abbandonati per sempre per essere, successivamente, nella penultima invasione turistica snaturati quali appartamenti per le vacanze o spartani o dotati di tutte le comodità a secondo del palato del turista. A partire dagli anni ‘50, con la trasposizione delle infrastrutture e reti di trasporto appartenenti al mondo urbano e di pianura nell’ambito alpino anche il “mondo dei vinti” – quello delle campagne, delle borgate e delle montagne d’Italia – si era aperto al boom economico e ad un modello di economia caratterizzato dall’industrializzazione e soprattutto dalla crescita del terziario. Di quest’ultimo la parte del leone ebbe certamente il turismo, dato che con la diffusione di un certo benessere ed il diritto/dovere delle vacanze retribuite una fetta sempre più ampia di cittadini poteva intraprendere la via dei tornanti. Nacque così il cliché della montagna, un’immagine che per biechi interessi monetari è stato promosso dalle stesse comunità turistiche. Oggi che orde di vacanzieri si lanciano all’arrembaggio del mondo montano viene da interrogarsi se quell’immaginario proposto non vada radicalmente rovesciato: un’aria sempre più inquinata dagli automobili, una natura contaminata dal cemento, dagli impianti di risalita e dal fragore di motociclette battitori liberi di tornanti e passi alpini, un’ospitalità mercificata lontana anni luci dagli obblighi morali del soccorso in montagne, una rusticità da Tarzan alpestre con i suoi bollori ormonali, la trasposizione del modello agonistico sportivo nella pratica dell’escursionismo, alpinismo e dell’arrampicata ed infine la pretesa che ghiacciai, pareti verticali e strapiombi portino il sigillo di sicurezza certificata. Sono queste “esagerazioni” che ci portano a proporre un racconto un po’ diverso, forse non così scontato o dominato dai vassalli della montagna pop come Heidi, Messner e Corona. Ci sono anche loro ma il percorso si fa forse più denso, un sentiero non segnato delle visuali passate e contemporanee di chi vive in montagna o meglio, faceva e fa montagna lontano dai cliché e dalle mode massmediali di cime innevate, dirndl fluttuanti, sonorità gutturali e concerti di alta quota.
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