La costruzione delle Alpi

Dal gusto dell'orrido settecentesco alla montagna-lunapark del XXI secolo

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Andras
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Ultimo aggiornamento: 05/10/2022
Il titolo di questo capitolo di suggerimenti bibliografici prende spunto dall’ormai classico libro in 2 tomi di Antonio De Rossi La costruzione delle Alpi. Immagini e scenari del pittoresco alpino (1773-1914). Prendiamo infatti a prestito i due concetti espressi dallo studioso nativo delle Valli Valdesi: da una parte le montagne, così come le conosciamo sono il risultato di una lunga serie di antropizzazione iniziata agli albori del tempo umano ed infine intensificata a partire dal XVI secolo. Senza intervento dell’uomo – un fatto che gli ammiratori moderni di pascoli, sentieri e panorami idilliaci dimenticano – le montagne risulterebbero inospitali ed impraticabili per il normale escursionista ed alpinista perché devastate da alluvioni, frane e smottamenti, inaccessibili per un sottobosco rigoglioso e per alberi in decomposizione. Per dirlo con una parola una giungla di altura per nulla attraente, se non per studiosi di botanica, biologia o zoologia. La presenza umana ha quindi creato un determinato paesaggio di cui la cultura borghese occidentale – ed è il secondo concetto base dell’opera – ha costruito a partire dalla fine del ‘700 con modifiche e giustapposizioni un immaginario collettivo della montagna rispondente alle proprie aspettative culturali, sociali ed economiche. Se il nobil signore del XVIII secolo percorreva rabbrividendo le mulattiere e le cenge in risposta alla ricerca dell’orrido e misterioso, il viaggiatore di inizio ‘800 includeva l’attraversamento delle Alpi nel Grand Tour guardando l’homo alpinus con gli occhi di un facoltoso borghese delle fiorenti città transalpine. Con lente scrutatrice misurava e giudicava gli esemplari umani di valle senza spingersi fino ai paesi o borghi alti ed isolati. Solo dei pazzi intraprendevano i primi passi verso l’alpinismo come lo conosciamo noi, conquistando vette innevate e coperte da ghiacciai. Tra di loro abbondavano stranamente molti prelati e uomini di chiesa, come se l’ascesa verso i monti avesse anche una componente metafisica. Con il progredire del secolo XIX si moltiplicavano gli esploratori delle vette come anche chi -sempre di estrazione borghese e cultura cittadina – eleggeva le montagne quale luogo dove trascorrere i periodi di ristoro. Ebbe così inizio l’era del turismo di montagna, prima in località di valle impreziosite dalla presenza di teste coronate, ricchi banchieri e panciuti industriali - St. Moritz, Davos, Interlaken, Cortina d’Ampezzo, Dobbiaco, Bad Ischl – poi in luoghi meno pomposi e più difficilmente raggiungibili. La novità del periodo prima e immediatamente dopo la Grande Guerra fu la risposta da parte di pochi privilegiati “montanari” alla domanda della società borghese urbana di godersi le vacanze, una specie di primo feed back alle aspettative del mondo urbano di pianura: accanto alla costruzione delle prime infrastrutture alberghiere si assiste al cristallizzarsi dello stereotipo culturale che domina ancora oggi la nostra società. Con alcune significanti novità rispetto ad allora: l’uomo delle montagne assisteva alla progressiva penetrazione di una viabilità sempre più capillare negli anfratti più remoti delle Alpi, all’inondazione del territorio di cemento per la costruzione di infrastrutture residenziali e l’invasione di tanta tecnologia che permette al turista odierno di raggiungere altezze che un secolo fa richiedevano una condizione e fatiche fisiche non comuni. Nel frattempo anche le più povere valli alpine hanno conosciuto un considerevole innalzamento del loro tenore di vita. Se da una parte l’emigrazione verso la pianura industrializzata ha ridotto di fatto la pressione demografica, dall’altra l’arrivo del turismo di massa ha migliorato generalmente la situazione economica della popolazione montanara. Ad un prezzo culturale per certi versi molto caro. Lo spettacolo a cui assistiamo oggi, quello appunto del turismo di massa, è il risultato di un modello di divertimento e tempo libero nato nei lidi rivieraschi di felliniana memoria e proiettato nelle valli e lungo i crinali delle nostre montagne: après ski, discoteche, caroselli di risalita, innevamenti artificiali, vasche di idromassaggio in altura, concerti sulle vette e nei rifugi, ristoranti gourmet con enoteca nella stazione di monte delle funivie, percorsi di parchi di avventura e altri simili passatempi. I sollazzi urbani sono stati trapiantati a 2000 m. Ancora sotto il falso cliché dell’aria buona, della genuinità di cibo, di comportamenti vengono convogliati milioni di turisti e, se imperversa la pandemia virale, allora i cultori dell’aria incontaminata e del distanziamento garantito quadruplicano per trovarsi in coda a risalire i pochi metri rimasti fino alla vetta. É la montagna-lunapark, quella delle nostre Alpi, quella che diventa assurdamente una minaccia per se stessa, quella realtà che è stata e continua ad essere decantata dalle agenzie di promozione turistica delle regioni alpine. Uno sviluppo nella costruzione delle Alpi inconcepibile 100 anni fa, impercorribile per la tenuta stessa dell’ambito montano oggi e nel futuro. C’è chi da tempo sente l’urgenza di un altro modo di sfruttare la montagna, di viverla, decostruendo la realtà e l’immaginario creatosi 2 secoli fa per ricostruirne uno nuovo, rispettoso dell’ambiente e dell’uomo che abita tra le valli ed il cielo.
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