«Ella disse: non starò sotto di te.
Ed egli disse: ed io non
giacerò sotto di te, ma solo sopra.
Per te è adatto stare solamente sotto
mentre io sono fatto per stare sopra».
(Alfabeto di Ben-Sira).
John Collier, Lilith
Lilith è uno dei miti più complessi dell’Antichità, simbolo della rivendicazione dell’uguaglianza della donna con l’uomo, della donna che non si adegua a “stare sotto” e che sfida i confini imposti alla sua autonomia.
Essa compare anche nella Genesi come prima moglie di Adamo; come tale si ribellò al suo consorte, ma soprattutto anche al suo creatore, che l’aveva destinata soggiogata al volere del patriarca. Con un gesto di insubordinazione Lilith lasciò il marito e si rifugiò nel deserto abitato dai demoni. Quando Dio intervenne inviando una schiera di angeli che avrebbero dovuto riportarla indietro, ella rifiutò di seguirli. Le fonti ebraiche la descrivono come una donna dalla bellezza ammaliante, ma terrificante, con la coda di un serpente e ali di uccello.
La regina della notte (British Museum)
Che ne è stato di Lilith, dopo la sua fuga? Ebbene, a dispetto dei millenni, ha continuato a "vivere". Il suo mito non si è estinto, al contrario, nel tempo si è arricchito di ogni sorta di fantasia. È la Madre Terribile che si reincarna in Arpie, Sirene, Strigi, Nereidi, Lamie... sono tutti riferimenti ispirati alla sua figura, presenti nelle leggende di vari popoli, in periodi diversi.
Ma Lilith è anche l’archetipo della Femme fatale, vale a dire di una donna particolarmente attrattiva e seducente, che, munita di tratti magico-demoniaci, lega il maschio a sé, lo manipola a suo piacimento, lo corrompe moralmente e infine lo fa precipitare “fatalmente” nell’abisso.
La camaleontica Lilith ha cavalcato il tempo adattandosi ai suoi mutamenti e trasfigurandosi in figure bibliche come Erodiade, Potifar, Giuditta e Dalila, in donne mitologiche quali Pandora, Circe, Medea, Elena, Clitennestra e personaggi storici come Cleopatra, Messalina e Teodora.
Anche nel Medioevo ricorreva l’idea della pericolosità della sessualità femminile, originariamente incarnata da Eva. Ricordiamo qui nella figura incantatrice seducente e malefica della Fata Morgana, delle ninfe Melusine ed Udine, e dell’Armida. L’età moderna vide il mondo letterario popolato dalle varie Semiramidi, Agrippine, Sofonisbe (Calderon de la Barca) e da personaggi come Rahel la Fermosa (Lope de Vega) che diede lo spunto poietico all’ammagliante e bellissima eroina della comunità serfadita, la Jüdin von Toledo (L’ebrea di Toledo) di Franz Grillparzer e Lion Feuchtwanger.
L’età romantica, con la riscoperta dell’ancestrale, crudele e mostruoso mondo medievale, avendo comunque ereditato con l’età dei Lumi, accanto al trionfo della razionalità, anche il nascosto piacere per i furori irrazionali ed istintivi, ripropone con l’icona della bellezza medusea, il magnificamente orribile ed l’orribilmente bello nel proprio registro estetico la figura del Femme fatale. In questo contesto il sublime si combina spesso con l’immagine de La belle dame sans merci, come la cantò John Keats nel poema omonimo.
Per i prati vagando una donna
Ho incontrato, bella oltre ogni linguaggio,
Figlia d’una fata: i capelli aveva lunghi,
Il passo leggero, l’occhio selvaggio.
…
E mi portò alla sua grotta fatata,
Ove pianse tristemente sospirando;
Poi i selvaggi suoi occhi selvaggi le chiusi,
Entrambi doppiamente baciando.
Poi fu lei che cullandomi
M’addormentò – e, me sciagurato,
Sognai l’ultimo sogno
Sul fianco del colle ghiacciato.
Cerei re vidi, e principi e guerrieri,
Tutti eran pallidi di morte:
“La belle dame sans merci”, mi dicevano,
“Ha ormai in pugno la tua sorte”.
John Keats, La belle dame sans merci, 1819
Sotto: Dante Gabriel Rossetti, La dame sans merci
Il Romanticismo prima, e decadentismo poi è stato segnato dalla questione erotica. Mai, in nessun altro periodo, il sesso ha un ruolo così evidentemente centrale nelle opere di fantasia e la capacità di spodestare valori e ideali. Mentre la prima età del romanticismo conosce, pur annoverando parecchie donne fatali, il predominio del eroe byroniano, anch’esso sadico (sulla scia del diabolico Marchese), sacrificatore di donne, è la seconda parte che vide il trionfo della donna-vampiro, dai tratti sadici.
Tutto parte dalla keatiana “La bella donna senza pietà” e da Matilda, eroina del romanzo gotico di Matthew Gregory Lewis, Il monaco (1796). Quest’ultimo narra la caduta del superiore dei Cappuccini di Madrid Ambrosio per mano della diabolica Matilda. Essa non paga di averlo traviato sessualmente ne fa di lui un blasfema, uno stupratore ed infine un omicida che disperandosi della condanna da parte dell’Inquisizione vende l’anima al diavolo.
Con il passare del tempo il declamato satanismo di Matilda (ancora vivida la reminiscenza sadiana) si stempera nella celebrazione della passione irrefrenabile. Velleda, l’eroina gallica dei Martiri di Chateaubriand, non ha più nulla di diabolico, se non quello di essere sacerdotessa e come tale celebrante orrendi sacrifici umani. La druida patriotica innamorata respinta dall’ufficiale romano Eudore che l’ha liberata porta alle conseguenze estreme la sua infatuazione tagliandosi la gola. Il gesto del proprio sacrificio umano preannuncia comunque la fine non meno cruenta del milite cristiano e della sua amata. Finiranno nell’arena tra le fauci di una tigre “connue par sa férocité”.
Se Prosper Merimeé ironizza da una parte l’episodio di Ambrosio e Matilda nella commedia Une femme est un diable con la protagonista Mariquita – dandone un’anticipazione burlesca della gitana Esmeralda di Notre Dame de Paris di Victor Hugo – dall’altro canto crea con il personaggio di Carmen il prototipo della femme fatale, della donna diavolo zigana. A parte il suo ferale fascino e la violenza della sua passione, che la accomuna all’eroina di Lewis – il frate Ambrosio si rende conto troppo tardi che: “In un ora sono divenuto fornicatore, spergiuro ed assassino”, simile rimprovero esprime José nei confronti di Carmen: “È per te che son divenuto ladro ed omicida” – Carmen è assai lontana dalla mistofelica Matilda. Stregato dall’aura seducente della bella andalusa il soldato perde ogni riguardo per la propria posizione sociale, uccide il suo superiore e scappa con Carmen. Ma le relazioni con le potenze infernali de Il monaco sono sostituite nella novella di Merimée con “les affaires d’Egypte”.
Fu lo scrittore francese a localizzare in Spagna il tipo di donna fatale: ideale esotico e ideale erotico vanno di pari passo, dove l’esotismo è solitamente una proiezione fantastica di un bisogno sessuale. Ciò sarà evidentissimo nel caso di Théophile Gautier e Gustave Flaubert, che si trasportano col sogno in un clima d’Antichità barbarica e orientale, dove tutti i più sfrenati desideri possono venir sfogati e le più crudeli immaginazioni assumere forma concreta.
Non è da meno l’autore dei Misteri di Parigi, Eugène Sue, creatore della diabolica creola Cécily. Ma malgrado la corruzione “degna delle regine cortigiane dell’Antica Roma”, la sua anima nera riesce a commuoversi alla sventura di Louise, ragazza violata dal notaio Jacques Ferrand e accusata in seguito di infanticidio. Introdottasi sotto le mentite spoglie di domestica nella casa di Ferrand, Cecily non ha altro scopo di irritare la passione sessuale del notaio, senza soddisfarla. Esaspera il vecchio libertino al punto da estorcergli il segreto più intimo che lo potrebbe portare sulla forca: “la mia testa per le tue carezze”. Cécily che ha raggiunto il suo scopo umanitario fugge, mentre il notaio libidinoso, in preda a satiriasi, muore dopo spaventose allucinazioni.
Il tipo della fatale allumeuse ha avuto grande diffusione e la sua provenienza è migrata dalla penisola iberica verso le vaste lande della steppa russa dove si modella soprattutto sulle donne di Dostojevskij. Nastàsja Filippovna de L’idiota è la più caratteristica di questo genere.
Théophile Gautier è, a detta di Mario Praz, il vero e proprio fondatore dell’estetismo esotico. Come lui, anche altri amanti delle ambientazioni stravaganti non si fermano comunque alla descrizione di lande lontane e misteriose. Le fanno abitare da personaggi altrettanto perturbanti, come appunto l’esemplare fatale di donna. Già la Madamigella di Maupin, ma ancora di più Una notte di Cléopatra segna l’apologia della femme fatale, della donna senza pietà, mantide religiosa che “divora”, facendo uccidere – “che sublime crudeltà!” esclama Gautier - i suoi amanti di una sola notte. La figura di Cleopatra combina collo sfondo dell’Oriente favoloso quel gusto di algolagnia, che era “come nell’aria del periodo romantico”. L’algida, siderale ed inattingibile regina d’Egitto, dal fascino possente – “ogni sguardo dei suoi occhi era un poema superiore a quelli di Omero ...” - in preda all’ennui, concede al giovane cacciator di leoni una notte. Ma la conoscenza del suo corpo è un fine ultimo, dopo di che la vita non ha altro da offrire.
La fiamma che attira e brucia segna qui un cannibalismo sessuale che è prerogativa della donna. Verso la fine del secolo l’incarnazione di questo tipo di donna sarà Erodiade, la Salomé di Oscar Wilde e di Richard Strauss. Dice Mario Praz: “È curioso seguir la parabola dei sessi durante l’Ottocento: l’ossessione pel tipo dell’androgino verso la fine del secolo è un chiaro indice di un torbido stato di confusione di funzioni ideali. Il maschio, dapprima tendente al sadismo, inclina al masochismo, alla fine del secolo.”
L’icona dell’amazzone che uccide chi la vuole in sposa si declina in Gautier verso lo stereotipo narrativo della donna vampiro e, con moto necrofilo, del fascino delle belle donne defunte. Specie delle grandi cortigiane, delle lussuriose regine, delle famose peccatrici incarnatesi, a volta a volta, in tutti i tempi e tutti paesi, nell’archetipo della donna fatale riunente in sé tutte le seduzioni, tutti i vizi e tutte le voluttà.
Sotto:Alexandre Cabanel, Cleopatra prova il suo veleno sui condannati a morte, 1870
Anche Gustave Flaubert risente di questa plenitudine d’esperienza essendo il suo ideale femminile quello della donna infame: una prostituta, un adultera, una città … Parigi “ove tutto … era di grande ed immenso nel vizio, e di voluttuoso nel crimine”. In Novembre, la cortigiana Marie, che parla con la voce stessa di Flaubert, - trasposizione letteraria di Eulalie Foucaud, donna realmente conosciuta – è colei in cui i molti amori avevano lasciato tracce che la circonfondevano d’una “maestà” voluttuosa. “… la dissolutezza la decorava di una bellezza infernale”. Nello scrittore dell’Educazione sentimentale Cleopatra diventa l’incarnazione idoleggiata dell’antica lussuria: “È la creatura pallida, dagli occhi di fuoco, la vipera del Nilo che si avvinghia e soffoca; essa sconvolge gli imperi, mena le armi in guerra e svanisce sotto un bacio; conosce i filtri che fanno innamorare ed i veleni che fanno morire; le madri ne spaventano i loro figli ed i re languiscono per ella d’amore.”
Similmente il mercenario ribelle Matho per la figlia di Amilcare Barca in Salammbò: qui è di nuovo la donna a dare nel frigido, nell’insensibile, nel fatale, nell’idolo; l’uomo a spasimare di passione, “a cadere ai suoi piedi come un fachiro nella festa di Juggernaut”. La figura della femme fatale si fissa nella Tentazione di Sant’Antonio con la regina di Saba che dice al santo: “Tutte quelle [donne] che hai incontrato … tutte le formosità che hai intravisto, le immaginazioni del tuo desiderio, chiedi a loro! Io non sono una donna, io sono un mondo. I miei vesti non hanno che cadere e tu scoprirai sulla mia persona un mare di misteri!.” Si ricordi a tal proposito le Metamorfosi del Vampiro di Baudelaire: “… Per chi mi vede nuda e senza veli, io sono / la luna, il sole, il cielo e le stelle!”
Vittima anche troppo complice di questa femmina perversa è senza dubbio l’appena citato Charles Baudelaire: l’eros non è quasi mai capace di distaccare estasi e disprezzo, ed egli trova le donne tanto più seducenti quanto più ripugnanti; da qui la creazione della donna-vampiro, enigma dell’impenetrabile e dell’inattingibile. Il poeta francese che conosceva le donne nel loro essere come tigri, sensuali e micidiali, esprime l’idea che l’amante infligge ferite:
...Per placare una rabbia
Misteriosa, a volte
Ti dai da fare, fai la brava,
mi dai i baci, mi mordi,
mi strazi, mia bruna, con un riso beffardo
e poi usi sul mio cuore
quel tuo sguardo dolce di luna.
...
Charles Baudelaire, Canzone del pomeriggio
Sotto:Edward Burne-Jones, Il vampiro
Tale figura è celebrata in numerose poesie, quali Le Vampire, Femmes damnées e Les Métamorphoses du Vampire. Dai versi di Baudelaire emergono la paura del piacere mascherato da dispregio, il conseguente tentativo di fuggire il sesso, l’accusa di sperpero di succo vitale sempre imputabile alla donna – “accusa” che ritornerà sotto spoglie idealiste all’inizio del secolo 20º - il sadomasochismo basato sul sentimento del sublime e il celebre binomio eros-thanatos. Tutte le poesie delle Fleurs du Mal che trattano di argomenti inerenti alla sensualità erotica sono piene di quella stridente disarmonia. Ne risulta quasi sempre un maggior risalto dato all’avvilente degradarsi degli amanti. Lui che desidera diventa schiavo consapevole e privo di volontà, ma anche lei, l’oggetto del desiderio, non ha più nulla di umano e di degno, è insensibile, terribile per la potenza e l’ennui, sterile, distruttore.
La donna mentre si torceva come un serpe sulla brace
E ammaccava i seni tra le stecche del suo busto
Lasciava scorrere dalla sua bocca di fragola
Queste parole tutte impregnate di muschio
E mi succhiò il midollo delle ossa!
Allora mi volsi a lei languidamente
Per darle un bacio d’amore, e cosa vidi?
Soltanto un otre dai fianchi vischiosi e tutto pus!
Che gelido orrore!...
Charles Baudelaire, Metamorfosi del vampiro
La rappresentazione degradante della sensualità sono una tradizione cristiana, ma nelle Fleurs du mal il problema della sensualità come depravazione è posto in modo diverso; oggetto del desiderio peccaminoso sono molto spesso il marcio e il bizzarro nelle varie forme. È in questo contesto che trovano spazio temi come la bruttezza eccitante, l’attrazione per la sessualità selvaggia e per la crudeltà, l’amore saffico.
La più completa formula di questo tipo di donna si trova comunque in uno scrittore inglese, AlgernonCharles Swinburne. Il suo caso presenta analogie con il caso Baudelaire, salvo che è più facile distinguere nell’inglese dove sia sincerità e dove sia posa. Se nella viziosità di Baudelaire c’è molto di acquisito, Swinburne si trova di natura in una situazione speciale. L’aristocratico dalla fama di poeta immorale aveva, oltre alle frequentazioni omosessuali, qualche problema nell’approccio all’altro sesso tanto che l’amico Dante Gabriel Rossetti – la scuola preraffaelita sembra aver avuto la giusta sensibilità per tradurre le pulsioni del Nostro in immagini - gli procurò un’artista circense per convertirlo all’eterosessualità e per allontanarlo dalle pratiche sessuali autodistruttive. Pare che il giovane abbia imparato a Eton tecniche erotiche sadomasochiste come, in particolare, la flagellazione e l'autoflagellazione di cui divenne oltre che praticante – l’artista menzionata avrebbe risposto alle premure del Rossetti che “non riesco a fargli capire che mordere non serve a niente” – anche appassionato cantore. Il suo ideale di uomo era quello dell’impotente e passiva vittima della rabbia furiosa di una bella donna. In lui l’amore è martirio, il piacere pena. La donna invece era di una bellezza scostumata, imperiosa e crudele. Data la limitatissima esperienza di Swinburne con l’altro sesso le sue donne sono tutte conformi a un tipo che è mera proiezione della sua torbida sensualità che non si ferma nemmeno di fronte agli istinti necrofili. C’è molto idolo, fantasma e poca creatura reale nelle sue protagoniste. Nei suoi Poemi e ballate vi regna un medievalismo torvo e satanico con Venere decaduta a vampiro sinistro, idolo bello e crudele. L’eterno femminino sadico è impersonato nel corteo delle lussuriose regine orientali. E infine soprattutto Dolores, Nostra Signora dello Spasimo dei Sensi, che il poeta invoca in una litania di sadica profanazione:
Fredde palpebre che nascondono come gioielli i due occhi … le bianche membra pesanti, e la crudele bocca rossa come un flor velenoso; quando questi son passati coi loro splendori, che resterà di te allora, che rimarrà, o mistica e cupa Dolores, Nostra Signora di Spasimo?
Sette dolori danno i preti alla loro Vergine; ma i tuoi peccati, che sono settanta volte sette, sette età non varrebbero a lavartene, e anche allora ti perseguiterebbero in cielo …
L’importanza del Swinburne sta soprattutto nell’influenza esercitata suoi poeti e letterati decadenti di fine secolo come Oscar Wilde e Walter Pater che a loro volta incisero profondamente sul Decadentismo continentale.
Quest’ultimo si distinse per aver aggiunto allo stereotipo della femme fatale un tocco di raffinatesse. Il nostro insigne storico d’arte credette di poter individuare la millennaria storia della bella donna senza pietà addirittura nel celebre sorriso della Gioconda: “l’impenetrabile sorriso, sempre animato da alcunché di sinistro, che alia su tutta l’opera di Leonardo”.
Sotto;Leonardo da Vinci, Monna Lisa
Anche Monna Lisa è un vampiro, anch’essa accoglie in sé tutte le esperienze del mondo come Dolores e Cleopatra. La pagina di Pater rese il tipo di donna fatale così popolare, che negli anni ’80 fu moda tra le allumeuses parigine, affettare l’enigmatico sorriso.
L’antropologa Camille Paglia vede la femme fatale come una delle figure più importanti tra gli archetipi demoniaci del femminile che rappresentano l’indomabile vicinanza alla natura. “Più l’Occidente tenta di relegare la natura in un angolo, più ricompare la femme fatale come ritorno del rimosso. Essa è creazione della cattiva coscienza … è il pungiglione che resta conficcato.” La riorganizzazione industriale, alla fine dell’Ottocento, di ogni pensiero scientifico secondo le credenze della teoria evoluzionistica richiedeva in effetti lo sviluppo di schemi che ponessero come postulato la capacità “dell’uomo” di trascendere gli implacabili cicli della “mera natura”. Allo stesso tempo, la denigrazione su vasta scala delle donne, considerate poco più che macchine per fare figli, favoriva di fatto la “mascolinità”, mentre condannava l’identità femminile.
Il tardo Ottocento si servì delle scoperte di Darwin per trasformare i conflitti sessuali buttati lì a caso in una denuncia “scientificamente fondata” della sessualità femminile quale fonte di smembramento e degenerazione “sociale”. Agli inizi del secolo 20º, la biologia e la medicina si impegnarono a dimostrare che la natura aveva dotato tutte le donne di un istinto basilare che le rendeva predatrici, distruttrici, streghe – perfide sorelle. Si era giunti a considerare la sessualità femminile come una malattia degenerativa: le donne erano l’arma segreta della natura contro i valorosi sforzi degli uomini per trionfare sulla moralità.
Fu a Parma, nel novembre del 1865, quando ancora prestava servizio nel commissariato militare, prima di lasciarlo per vivere la sua esistenza da scapigliato, che Iginio Ugo Tarchetti conobbe una certa Carolina, o Angiolina. Malata, epilettica, prossima alla morte, orribilmente brutta, le sue uniche attrattive erano gli occhi grandi e nerissimi e le trecce del colore dell’ebano. Tarchetti suscitò nella donna una grande passione e fu costretto a subire il folle sentimento. Per strano destino la ragazza, prossima alla fine, gli sopravvisse. La figura della ragazza di Parma e la tormentosa relazione confluirono direttamente nel suo capolavoro Fosca. Fosca, come Carolina, è una donna epilettica ed isterica, simbolo non nascosto di malattia e morte, tormentata dal bisogno d’amare e d’essere amata. Ma è anche una figura femminile moderna, volitiva, tenace, decisa ad affermare il suo diritto all’amore vietatole dalla condizione di “orrida bruttezza”. Nucleo centrale del romanzo è proprio questo folle desiderio, causa di sofferenza fisica e dolore morale, che condurrà entrambi alla distruzione.
Nel frattempo si era già consumata la relegazione della donna borghese al focolare, alle vicende di casa e all’amorevole cura parentale. Evasivamente nell’immaginazione maschile alleggiava come spettro allo stesso modo terrificante e fascinoso la figura della femme fatale quale recondita proiezione di fantasie erotiche represse – tra esse anche quella della castrazione sublime – trascendenti le convenzioni morali borghesi. Si considerano soltanto le felici sorti delle signore démi-mondaines, cortigiane di buona parte del mondo maschile politico e letterario della Francia della Belle Epoque. L’argot di allora le definì come le “grandes horizontales”. Un’immagine che ricorda niente meno che le eroine Cleopatra, Messalina, Agrippina e molte altre.
Sotto: Cocotte (Atelier Reutlinger, Parigi 1900)
Le donne di lusso emergono anche dall’immaginario erotico del
Verga. Sia Narcisa, de
Una peccatrice, che Eva, protagonista dell’omonimo romanzo, sono rappresentanti di una seduzione femminile il cui fondamentale attributo di bellezza è – ricordando ambiti e fisionomie della Belle Epoque parigina nonché del femminile baudelairiano – l’artificio del trucco, dell’abbigliamento e l’ambiente alto borghese-aristocratico animato da feste , balli e serate teatrali. Per contrasto vi sta la
Lupa. Isolata dalla comunità, integrata perfettamente nella natura selvaggia, essa è manifestazione estrema di una sensualità panica e demoniaca da esorcizzare. L’attributo animale fa della Lupa un archetipo dell’eros insaziabile e insieme rivela un’ottica nuova, la paura con cui il maschio di fine Ottocento guarda alla donna avvertita come minaccia alla propria integrità psichica e familiare. Moglie borghese – amante vampiro, perbenismo morale – folle perdizione nei vortici delle fantasie/perversioni erotiche sono i due poli tra i quali si muove l’uomo della 2º metà dell’800.
Sotto: Edward Robert Hughes, Valchirie’s vigil
A detta di Mario Praz
Gabriele D’Annunzio è stato il primo a portare tra gli italiani la “Bisanzio anglo-francese” della f
in de siècle. Ma la trasposizione della torbida materia swinburniana risulta nel Vate spesso innocua ed insipida. Le donne del pescarese assumono un carattere “sintetico”, apparendo cioè un concentrato, una sintesi – come è sintetico l’operare predatorio dello scrittore per mille plagi - dell’esperienza sensuale di tutte le epoche e di tutti i paesi, quasi a costituire la reincarnazione delle più famose “cortigiane” della storia e del mito. L’immagine della donna senza pietà risulta potenziata: la femme fatale swinburniana è compenetrata dalla Superfemmina di derivazione nietzschiana e wagneriana.
La più celebre fra le “donne sintetiche” è Pamphila del
Poemo Paradisiaco per la sua caratteristica sensualità impura e contaminata. A questa si aggiungono comunque caratteristiche nuove e peculiarità narrative dello scrittore italiano che arricchiscono la complessità topica della figura femminile dannunziana. Nel
Piacere Elena non solo riesce a sottomettere il raffinato esteta Andrea Spinelli, ma nella donna Andrea sembra aver trasferito una parte della propria personalità. L’immagine della donna che ha “risucchiato” tanta parte della personalità dell’amante ritorna nel
Trionfo della morte. Giorgio Aurispa, che ha la voluttà dolorosa dell’introspezione, vede in Ippolita Sanzio non solo
“l’immagine terrifica e quasi gorgònea della donna”. L’accesa sensualità della donna viene individuata da Giorgio come una forza ostile, in grado di imporre il proprio predominio fiaccando tutto il suo essere e degradandolo intellettualmente; è in questo contesto che si inserisce l’omicidio-suicidio in cui trovano la morte i due protagonisti.
Sia ne
Il piacere, Il
trionfo della morte e
L’innocente la passione malsana si risolve in un amplesso con la malattia, col difetto del corpo, con la sterilità celando pulsioni necrofile. Sempre l’Ippolita è malata di epilessia e cade vittima di una sindrome isterica. L’
isteria è da sempre stata vista come essenzialmente collegata agli aspetti più fisici e materiali della sessualità femminile. Ma verso la fine del Ottocento sembra rafforzarsi nell’ambito neurologico questa diagnosi pregiudiziale come dimostrano d’altronde le numerose vicende classificate come casi di isterismo femminile collettivo (per esempio il caso delle Isteriche di Verzegnis).
D’Annunzio intensifica il motivo della superiorità femminile presentando la donna non solo il principio attivo nella distribuzione del piacere, ma anche nel reggimento del mondo. La femme fatale offre all’uomo da lei affascinato la potenza e l’impero. In
La gloria l’amplificazione enfatica dell’invincibile potere della femmina sull’uomo è resa ancora più torbida perché la donna non rappresenta solo il sesso, ma insieme la gloria ed il delirante potere. La Comnèna, cortigiana insaziabile di potere e desiderio, nonché ultima discendente degli imperatori di Bisanzio, s’impadronisce della mente di Ruggero, pretendente al trono di Roma, salvo ucciderlo e darne il cadavere in pasto alla folla ribelle, quando arriva il momento di scegliere tra la politica, l'amore e l'esilio. Il dramma in 5 atti avrebbe dovuto celebrare il Superuomo e finisce ad essere un’apologia della fatale Superfemmina. La libidine è strettamente connessa alla volontà di potere nel rovescio nietzschiano dell’eterno femmineo.
…Secoli di fasto, di perfidia e di rapina s’inabissavano in te, sangue di traditori e d’usurpatori, razza micidiale. Ovunque tu toccassi, ovunque aderisse la tua carne d’inferno, pareva dovesse farsi una piaga senza rimedio. Eri il danno, il supplizio, la perdizione certa…
Isabella Inghirami, protagonista di Forse che sì forse che no, tocca gli estremi della lussuria e della sensualità non che del sadismo. In essa la teorizzazione dell’algolagnia si declina praticamente nella dolorosa voluttà dell’incesto. Isabella non è più una femme fatale sull’esempio di quelle mitiche Cleopatra, Pamphila o Fedra. Essa è studiata più sul vero anche se ricalca lo stereotipo delle donne isteriche dalla volontà esasperata nelle cui mani l’uomo diviene uno strumento sottomesso. Il maschio prova orrore per la donna e insieme un’attrattiva proprio in quel senso d’orrore. L’amore è una discesa agli inferi “… nelle profondità dei misteri dell’amore … e della morte! …l’amore è una cosa grave, triste e profonda … l’Amour e la Mort, c’est la même chose!”
Il romanzo di D’Annunzio si chiude sulla demenza di Isabella. Allo sfondo orientale, lussurioso, crudele e magnifico su cui erano campite le femmine di Gautier, tende a sostituirsi, verso la fine del secolo, lo sfondo di un ospedale.
“Donne isteriche dalla volontà esasperata nelle cui mani l’uomo diviene strumento sottomesso”. La scena richiama immediatamente le Grausamen Frauen, le donne crudeli di Leopold von Sacher-Masoch. L’aristocratico galiziano si fece notare già in età adolescenziale per le sue inclinazioni alla parafilia. Il prestanome di quella tendenza psichica o fisica che poi sarebbe corsa sotto il nome di masochismo, non amava le donne sadiche bensì quelle che accettassero di impersonare il ruolo. Questa oscillazione tra realtà e ruolo segna anche il suo romanzo più famoso, Venere in pelliccia (1870). La narrazione scaturisce da un sogno del protagonista adolescenziale Severin von Kusiemski in cui una Venere greca, tremante dalle rigide temperature del boreale cristiano, copre la propria nudità con una pelliccia e un dipinto, appeso nella camera del giovane, che lo raffigura disteso in adorazione della stessa Venere. All’età di 16 anni il nostro eroe incontra durante un soggiorno termale nei Carpazi una ricca vedova dal nome Wanda che lo ricorda per bellezza e grazia proprio la Venere dei giorni passati. La proposta di matrimonio che Severin proferisce alla bella Wanda viene declinata, ma la volitiva slava rilancia con l’idea di un anno di proba durante il quale il giovanotto è ben lieto di trasformarsi nello di lei schiavo Gregor. Wanda compie ora le fantasie erotiche del suo amante e lo sottomette despoticamente, torturandolo immotivatamente in modo fisico e psichico.
Sotto: Leopold von Sacher-Masoch e la scrittrice Fanny Pistor con in mano una frusta
Gregor/Severin fatica comunque sempre più ad accettare gli svariati spasimanti della sua bella e, inchiodato dal contratto, non vede altra uscita che il suicidio per il compimento del quale gli manca però il coraggio. Soltanto quando Wanda lo tradisce con un suo sadico amante, il Greco, e lo consegna a quest’ultimo affinché lo frusti alla sua divertita presenza, Severin può dirsi “guarito”. Egli ritorna alla tenuta paterna per riprendere la sua vita precedente. Nelle relazioni con il “gentil” sesso è ora lui che domina e sottomette, per lo meno fino a quando “le donne non si possono dire socialmente pari all’uomo per formazione e professione”. A Leopold non è andato così liscio. Egli cominciò a dare segni di forte squilibrio mentale e aggressività, oltre al suo solito masochismo, e venne ricoverato dalla seconda moglie nel manicomio di Lindheim nel 1895, anno in cui viene annunciata la sua morte (altra coincidenza biografica con la vita di Sade, che morì in manicomio).
Che la donna dominante e crudele non fosse un’immagine relegata alle pulsioni stravaganti di una piccola cerchia di uomini, ma una proiezione maschile diffuso in tutto il mondo culturale europeo di fine 19º, inizio 20º secolo è dimostrata dalla seguente fotografia:
Sotto Lou Andreas-Salomé, Paul Ree e Friedrich Nietzsche (Studio Jules Bonnet, Lucerna, 1882)
Nel 1882 Friedrich Nietzsche, trentottenne, conobbe Lou Andreas Salomè, che all'epoca aveva solo 21 anni e le propose immediatamente di costruire una piccola comune intellettuale, una specie di "trinità" filosofica tra lei, Nietzsche e l'amico d'entrambi Paul Rée, di 32 anni. Nietzsche, innamorato della "giovane e affascinante russa", volle sposarla, ma ne ottenne, dopo un primo tentativo di inizio anno, un ultimo e definitivo rifiuto a Lucerna. Nella città lacustre venne scattata la famosa fotografia, arrangiata da Nietzsche in ogni dettaglio: Lou Salomé con frusta mette i due maschi davanti al suo carro.
Non è un caso, forse, che nell’immaginario maschile – nella dialettica femminile è entrata solo successivamente - l’idea di una forte passione per una donna sia associata alla frase “perdere la testa”. L’idea in senso stretto (la decapitazione), per l’uomo è associata all’evirazione. Il rischio di perdere il potere fallico nell’incontrare una femminilità tagliante e dura, non più accogliente e arrendevole.
L’icona della Tagliatrice di Teste è, per quanti sono affascinati da una figura femminile spietata e dominante, una sirena irresistibile: “Leggendo il libro di Giuditta invidiavo il feroce Oloferne per via della donna regale che lo decapitò con una spada, gli invidiavo quella bella fine sanguinaria” dichiara il già incontrato Severin.
Sotto:Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, Giuditta che taglia la testa a Oloferne
Il fascino di una donna così terribile è percepito massimamente da artisti che nelle passioni estreme e violente trovano il proprio campo d’azione preferito. Tra il 1597 e il 1600 il Caravaggio produce, con la sua Giuditta che taglia la testa a Oloferne, uno dei messimi capolavori del suo tempo.
È pero nell’Ottocento che il mito della “decapitatrice” scatena un diluvio di passioni nel mondo dell’arte europea. Nel 1876 Gustave Moreau espone al Salon International il suo quadro Salomè e da allora comincia negli artisti europei una febbrile ricerca di particolari visivi capaci di esprimere la bramosia della fanciulla per la testa di Giovanni Battista.
Sotto Franz von Stuck, Salomé
Gustave Moreau, Salomé
Pochi mesi dopo Flaubert scrive l’Herodias, forse ispirato dal dipinto di Moreau. Le varie interpretazione dell’episodio biblico si intrecciano nel famoso dramma di Oscar Wilde Salomé, del 1891, che più di ogni altro scritto dà al suo nome il significato di perversità sessuale:
“… Ah! Tu non volevi che io baciassi la tua bocca, Iokanaan. Guarda, ora la bacerò. La morderò con i denti come si morde un frutto maturo. … Non mi hai voluta Iokanaan. Mi hai respinta. Mi hai detto cose infami. Mi hai trattato come una cortigiana, come una prostituta, io, Salomé, figlia di Erodiade, principessa di Giudea! Guarda Iokanaan, io sono ancora viva, ma tu sei morto e la testa è mia … .”
Quando Gustav Klimt nel 1901 dipinge Giuditta I, ha in mente una suggestione analoga a quella che il tema della decapitatrice esercita su Sacher-Masoch e Wilde.
Sotto: Gustav Klimt, Giuditta I e II
Ma, della seduzione di Giuditta, Klimt si fa apertamente vittima, ammette di ammirare “la donna più dell’uomo”. Nell’età della Secessione le donne “peccatrici”, “dominatrici”, “seduttrici” non sono più additate al pubblico ludibrio e alla compassione della morente società borghese dell’Ottocento, ma venerate come dee e idoli di una nuova cultura, più libera e “insieme schiava” delle sue grandi passioni.
La figura femminile, impreziosita dall’oro che le fa da cornice, esercita un fascino che “come il frutto di loto che faceva dimenticare agli stranieri la loro patria, così il fulgore della sua bellezza sradicava dagli uomini i giuramenti d’amicizia”.
Questa donna così seduttiva, capace di usare il suo fascino per soggiogare l’uomo e sottometterlo, è esaltata dalla letteratura del tempo. “Una donna che si guadagna la vita con l’amore è ai miei occhi ben più degna di stima di una che si abbassa a scrivere romanzi d’appendice o addirittura libri” è il provocatorio avvio di Mine-Haha, il lungo racconto di Frank Wedekind. Lo scrittore e dramaturgo bavarese riprende più compiutamente la sua ricoluzionaria e complessa visione dell’eterno femmineo. Sia nello Spirito della terra che nel Vaso di Pandora egli disegna il cammino sociale della protgonista Lulu. Wedekind la caratterizza in questo modo: “Con la mia Lulu intendevo creare un capolavoro di donna, che nasce quando una creatura riccamente dotata dalla natura … riesce a realizzarsi senza freni in un ambiente di uomini, molto meno dotati di spirito”. Mentre lo Spirito della terra racconta dell’ascesa sociale della donna, disegna il Vaso della Pandora la sua discesa verso il precipizio.
Frank Wedekind e Tilly Newes, sua moglie, in Lo spirito della terra, 1913 (dpa/pa)
L’aperta esposizione dell’istintività degli uomini mira ad una detabuizzazione della sessualità ed all’apertura delle visioni morali e delle convenzioni sociali cristallizzate della fine del secolo che rinnegarono completamente la natura umana. Innanzi a Lulu, “quale archetipo della natura indomata”, si infrangono tutte le convenzioni borghesi. La ragazza è in fondo una creatura compassionevole che fin dalla sua infanzia è stata solo vittima di ingiustizie. Wedekind dimostra molta empatia con questa donna profondamente triste, che diviene oggetto su cui gli uomini proiettano i loro sogni e desideri. “Gli uomini colgono in Lulu soltanto i riflessi delle proprie rappresentazioni del femminile. La catastrofe sovviene quando l’immagine che si sono fatti di Lulu non coincide più con le azioni e le forme di questa figura”.
Il ciclo di Lulu è un appassionato proclamo in favore dell’autorealizzazione e emancipazione della donna, e dell’uomo in generale.
Cosa succede quando lo sguardo emancipativo del maschio è ostacolato da torbide incongruenze culturali e psicologiche rievocanti ancora il pericolo della donna vampiro? Lo si è visto nel caso di Venere in pelliccia. Severin poteva considerarsi guarito nel momento in cui ha recuperato, da maschio, il dominio sulle donne, in cui il mondo virile è riuscito a ripristinare la barriera contro la liberazione della donna e della sua natura. Durante la guerra dei sessi che si “combatteva” intorno al movimento della Secessione viennese i fronti erano ancora netti e la dicotomia creatasi nella seconda metà del 19º secolo tra positivismo/natura, uomo/donna venne perpetrato ed esaltato idealisticamente da un giovane e stravagante filosofo viennese, Otto Weininger.
Nella sua opera Sesso e carattere, Weininger ipotizza che tutte le persone siano composte di un insieme di sostanze maschili e femminili, e cerca di sostenere il suo punto di vista scientificamente. Il lato maschile sostiene che sia attivo, produttivo, cosciente e logico, mentre il lato femminile sia passivo, improduttivo, inconsapevole e illogico o amorale. Weininger sostiene che l'emancipazione dovrebbe essere riservata alle "donne mascoline", ad esempio le lesbiche, e quelle donne la cui funzione riproduttiva sia esaurita: la donna è vista come uno strumento riproduttivo. All'opposto, il compito del maschio, o dell'aspetto mascolino della personalità, è la tensione alla genialità e l'abbandono della sessualità per un amore verso l'assoluto, verso Dio, che può trovare in se stesso.
In un capitolo separato, Weininger analizza l'archetipo della donna ebrea, e quindi profondamente irreligiosa, priva di individualità e del senso del bene e del male. La cristianità è descritta come "la più alta espressione del più grande destino", mentre l'ebraismo "la più vile codardia". Weininger critica la decadenza dei costumi contemporanei e attribuisce ciò allo spirito femminile, e quindi alle influenze ebraiche.
Sotto: Alfred Kubin, Il suicidio
La sua misoginia venne trasfigurata nella caratterologia della “nuova donna” ed influenzò una generazione intera nella sua convinzione antifemminista. Weiniger, che si tolse la vita platealmente all’età di 23 anni nella casa in cui morì Ludwig van Beethoven, divenne l’incarnazione del misogino, antisemita ed apologeta della castità. Egli stesso non temeva di “essere annoverato tra gli antifemministi, perché cercavo di indagare e di debellare dappertutto l’influenza della donna nell’odierna vita culturale e spirituale.”
Sesso e carattere venne accolto entusiasticamente anche da parte del gota culturale europeo. Karl Kraus, Ludwig Wittgenstein, Alfred Kubin elogiarono lo sforzo intellettuale dello scrittore viennese. Il drammaturgo svedese August Strindberg – paranoide schizofrenico e gravato da un rapporto conflittuale con l’altro sesso come stanno a dimostrare i suoi tre matrimoni – scrisse in una lettera di ringraziamento: “Veder infine risolto il problema femminile mi conforta enormemente. Perciò accolga la mia venerazione ed il mio ringraziamento!”; e aggiunse poi nel necrologio per Weininger, qual “coraggioso guerriero virile”: “A prescindere dalle opinioni sta il dato che la donna è un uomo rudimentale … fu questo segreto conosciuto, che Weininger osò proclamare; fu questa scoperta dell’essenza e della natura della donna, che egli riusci comunicare nel suo virile libro, a costargli la vita”. Che Weininger fosse sessualmente disturbato e che se ne fosse accorto egli stesso risulta chiaramente da una delle ultime annotazioni diaristiche: “L’odio contro la donna non è altro che l’odio contro la propria sessualità indomata”.
Anche Sigmund Freud ne attestò la fondatezza collegandolo all’antisemitismo del filosofo di origine ebrea:
“Il complesso di castrazione è la più profonda e inconscia radice dell’antisemitismo, poiché già il fanciullo sente durante la sua infanzia che all’ebreo viene tagliato qualcosa – un pezzo – del pene, e ciò lo autorizza a disprezzare l’ebreo. Weininger, quel giovane filosofo dotatissimo ma sessualmente disturbato, … aveva investito in un capitolo ben conosciuto con lo stesso odio e con gli stessi oltraggi sia l’ebreo che la donna. Weininger in quanto nevrotico si trovò completamente soggiogato dal potere di complessi infantili: la relazione con il complesso di castrazione è il comun denominatore del suo odio per l’ebreo e per la donna.”
Mata Hari
La Prima Guerra mondiale divenne palcoscenico della dipartita di una delle più famose icone del glamour della seduzione, Mata Hari. La danzatrice olandese divenne famosa per l’accusa di spionaggio a favore della Germania e la sua fucilazione da parte della Francia. La leggenda venne perpetrata da numerosi romanzi e rifacimenti cinematografici.
L’attrice Theda Bara
Il primo film che trattò il topos della femmes fatale fu The Vampire di Robert G. Vignola nel 1913. La protagonista Alice Hollister venne citata ripetutamente come la “vampiress originale” dell’epoca. 2 anni dopo seguì un’altra pellicola con il titolo A fool there was che vide l’affermazione di un’altra attrice Theda Bara, divenuta poi la più celebrata “vamp” del cinema muto.
Marlene Dietrich in Angelo azzurro, 1930
La promozione del film si servì del poema The Vampire di Rudyard Kipling decretando così nell’argot americano il successo dell’appellativo “vamp”, quale abbreviazione di “vampiress”.
La collaborazione artistica tra il cineasta Josef von Sternberg e l’attrice tedesca Marlene Dietrich tra il 1929 e 1935, e più precisamente quest’ultima nei film Angelo azzurro, Shanghai Express e La donna e il burattino (tratto dall’omonimo romanzo di Pierre Louÿs) segna l’apogeo della femme fatale cinematografica trascendente attraverso il mito di Marlene che queste pellicole contribuiscono a costruire e che l’attrice si apprestò ad alimentare per tutta la sua vita: “Dopo Lola-Lola Marlene resterà l’immagine perfetta della donna fatale: misteriosa e indomabile, scolpita dalla luce nella nuvola irreale del fumo della sua sigaretta. La si seguirebbe fino alla fine del mondo. Nella sua scia le persone più serie e più dignitose diventano dei petits enfants.”
La femme fatale continuò a colpire. Certo non più nella sua torva veste immaginaria e psicologica del romanzo gotico e del decadentismo. Per certi versi è divenuta più donna reale e meno vampiro,
ma sempre donna che mette in bestiale soggezione il mondo maschile
Bruno Schulz, Bestie
, gli mette i piedi in testa
Bruno Schulz, La fiaba eterna
, come aveva illustrato l’eterno femmineo con umorismo tutto yiddish il geniale scrittore ed illustratore polacco Bruno Schulz. La sua ragazza viene idolatrata da uomini completamente asserviti e deformati dalla loro dipendenza, ma non è una creatura sovrannaturale, demoniaca e pervertita moralmente. Godendo visibilmente l'estasiata corte la donna di Bruno Schulz è e resta umana, resta quel che in fondo è: la sheyn meydele fun unser shtetl, la bella della nostra cittadina ( si veda il consiglio di lettura Le botteghe color cannella, di Bruno Schulz).
Bruno Schulz, La città incantata II (Drohobycz, 1920-1922)
Fonti:
Mario Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Sansoni, 1999
Emma Squillaci, Eterno femminino fatale; Url:http://www.lafrusta.net/riv_femme_fatale.html (consultato il 15/03/2021)
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