La deificazione del capo (una bizzarria tutta romana?)

Il passato è il nostro presente ed il nostro futuro

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Andras
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Ultimo aggiornamento: 18/01/2024
Caio Svetonio Tranquillo, volendo sottolineare il carattere burlone dell’imperatore Vespasiano, in vita e pure nell’imminenza della sua dipartita, riferisce il seguente episodio: “… infatti quando, tra gli altri prodigi, si era improvvisamente aperto il Mausoleo e nel cielo comparsa una cometa, disse che il primo presagio diceva riguardare Giunia Calvina, che era una discendente di Augusto, e il secondo il re dei Parti, che aveva una lunga chioma; inoltre al primo attacco della malattia esclamò: “Ahimè! Credo che sto per diventare un dio!”.(Vite dei Cesari, 8º libro, XXIII)
L’aneddoto – tale lo è con tutta probabilità – fa riferimento, tra il serio ed il faceto, ad una prassi che il potere romano d’età imperiale incentivò e promosse per celebrare e consolidare ideologicamente l’istituzione dell’imperatore in modo universale ed in eternitate: parliamo della deificazione del primo magistrato, appunto l’imperatore, della sua apoteosi.
La procedura scattava non automaticamente, ma era sottoposto al vaglio del Senato, degli altri notabili nonché dello stesso popolo. Tant’era che non tutti gli imperatori conobbero il privilegio di tale trattamento; anzi alcuni, non pochi, subirono post mortem la “terapia” opposta, quella della damnatio memoriae, vale a dire la cancellazione da tutti i luoghi ed istituzioni pubblici del loro nome, quindi del loro ricordo ( si vedano gli imperatori Caligola, Nerone, Vitellio, Domiziano, Commodo ecc.).

Damnatio memoriae

Il concetto stesso di elevazione di un essere umano a livello di divinità/semidivinità era sconosciuto o, per lo meno, rimosso dalla pratica religiosa e politica della Repubblica Romana. L’SPQR reagiva con fastidio al profilarsi di un suo membro un po' meno inter pares, nonostante o forse proprio perché memore di non pochi tiranni durante la sua storia centenaria.
L'apoteosi aveva in realtà origini orientali, o almeno era da lungo tempo già usata in oriente, dove i re o addirittura i "Re dei re" (persiani) erano adorati come divini si che il popolo si prostrava di fronte al monarca. I romani al contrario non si prostravano nè di fronte all'imperatore nè di fronte agli Dei, la dignità del cives romanus era in tal senso adamantina.
Eppure un precedente c'era: il primo re di Roma, Romolo, scomparve in un giorno di tempesta e fu assunto in cielo trasformandosi in una divinità, cioè nel Dio Quirino. In realtà questa divinità era sabina, tanto è vero che era il Dio delle curie. Pertanto il defunto re Romolo e il Dio Quirino si fusero in un'unica identità, il che permise di fare del re un Dio. Ma a riprova che si trattasse di un’eccezione e che tale tabù continuasse a regnare, sta il fatto che Romolo ne restò l’unico caso nella storia della Res Pubblica Romana.

Divus Romulus

Si è parlato della nascita orientale del rito di deificazione. Il prototipo dell'apoteosi fu quello di Ercole - la sua anima, mentre il corpo avvelenato dal sangue del centauro Nesso veniva bruciato su una pira, fu portata da Atena sull'Olimpo per volere del padre Zeus, dove venne accolta fra gli dei.


Apoteosi di Eracle

Ma fu un fatto singolare nella religione greca dove la divinizzazione era istituzionalmente sostituita dall'eroizzazione del morto. Dopo la conquista di Alessandro Magno invece il mondo ellenistico iniziò a mutuare dall'Oriente la divinizzazione del condottiero e ancor prima che Alessandro morisse gli furono dedicati molti templi. La pratica venne introdotta dapprima in Grecia e poco dopo anche nell’Egitto tolomaica, dove già il faraone era una divinità in Terra. Quasi contemporaneamente l'apoteosi comparve anche in Siria, dove l'epiteto di Epifane, aggiunto al nome del monarca, significava appunto la manifestazione della divinità tra gli uomini. Non a caso il cattolicesimo ne mutuò il termine "epifania" per l'infanzia di Gesù Cristo.
Le porte della storia di Roma si spalancarono – l’episodio di Romolo era, come già detto, da ritenersi eccezionale – alla deificazione dei propri prodi con Caio Giulio Cesare. Il suo atto di divinizzazione avvenne a Roma nel 42 a.C. quando il senato lo fece divinizzare postumo. Ma il suo status divino era stato accettato dal popolo di Roma subito dopo la sua morte quando, si diceva, una cometa apparve in cielo durante i giochi funebri tenuti in suo onore da Augusto nel 44 a.C. Conosciuto come il Sidus Iulii o cometa di Cesare, questo è stato salutato come un segno che Cesare aveva preso il suo posto tra gli dei.

Divus Caius Iulius Caesar

Svetonio ne è alquanto preciso: “Morì nel cinquantaseiesimo anno della sua età, e fu annoverato tra gli dèi, non solo per decreto formale, ma anche per convinzione della gente comune. Perché al primo dei giochi che il suo erede Augusto diede in onore della sua apoteosi, una cometa brillò per sette giorni successivi, sorgendo verso l'ora undicesima, e si credeva fosse l'anima di Cesare, che era stato portato in cielo; ed è per questo che una stella è posta sulla sommità del suo capo nella sua statua”. (Vite dei Cesari, 1º libro, LXXXVIII)
Subito dopo la morte di Cesare, il suo corpo fu bruciato all'estremità orientale del foro dove furono dedicati un altare e una colonna in suo onore. Sia la colonna che l'altare furono successivamente rimossi e al loro posto fu costruito un tempio. Questo divenne il centro cultuale dedicato al divinizzato Giulio e anche un sito che la dinastia giulio-claudiana usava per la propaganda politica.

L'apoteosi di un imperatore era un atto più politico che religioso attuato dal successore dell'imperatore defunto, anche se investiva ambedue i campi. Tale processo prevedeva la creazione di un'immagine di cera del morto, riccamente vestito e seduto, esposta in pubblico per un certo numero di giorni, dopo di che veniva bruciata all'aperto su di una pira funeraria, a simboleggiare l'ascensione al cielo. Attraverso l'apoteosi il successore dell'imperatore dette a significare pertanto la continuità ideologica – se non proprio dinastica – con l'operato del predecessore.
Questa procedura era solitamente chiamata Consecratio ed Erodiano ne dà una descrizione (Eridiano, Storia dell'impero dopo Marco Aurelio, V, 2): "È costume dei Romani deificare gli imperatori che muoiono lasciando successori; e chiamano questo rito apoteosi. In questa occasione si vedono per la città forme di lutto unite a celebrazioni e riti religiosi. Onorano il corpo del morto secondo il rito degli uomini, con un sontuoso funerale; e dopo aver modellato un' immagine di cera il più possibile somigliante, la espongono nel vestibolo del palazzo, su un alto letto d'avorio di grandi dimensioni, ricoperto da un lenzuolo d' oro. La figura è pallida, come quella di un uomo malato. Durante buona parte della giornata i senatori siedono attorno al letto sul lato sinistro vestiti di nero; e le donne nobili siedono sulla destra, vestite con semplici abiti bianchi, come prefiche, senza ori o collane. Questo cerimoniale continua per sette giorni; e i medici si avvicinano uno ad uno spesso al letto, e guardando l' uomo malato, dicono che peggiora sempre di più. E quando ritengono che sia morto, i più nobili tra i cavalieri e giovani scelti dell' ordine senatoriale tirano su il letto, e lo trasportano lungo la Via Sacra, e lo espongono nel Foro antico. Palchi come gradini vengono costruiti su ogni lato; su uno sta un coro di giovani nobili, e su quello opposto un coro di donne di alto rango, che cantano inni e canzoni di encomio del defunto, modulate in una solenne e dolente melodia. In seguito portano il letto attraverso la città fino al Campus Martius, nella parte più larga del quale viene costruita una catasta quadrata di legname della misura più grande, a forma di camera, riempita di fascine e all' esterno ornata con tende intrecciate con immagini d' oro e d' avorio. Sopra questa una camera simile ma più piccola, con porte e finestre aperte, e sopra ancora, una terza e una quarta, sempre più piccole, così che si può compararla ai Phari. Al primo piano mettono un letto, e raccolgono incenso e ogni sorta di aromi, frutta, erba, succhi; perché tutte le città e le persone eminenti gareggiano nel contribuire con questi ultimi doni ad onorare l' imperatore. E quando è stato radunato un grande cumulo di aromi, c' è una processione di cavalieri e carri attorno alla catasta, con gli aurighi che indossano maschere per assomigliare ai generali e imperatori romani più insigni. Quando è stato fatto tutto questo, gli altri appiccano ad ogni lato il fuoco, che prende facilmente grazie alle fascine e agli aromi; e dal piano più alto e più piccolo, come da un pinnacolo, un' aquila viene lasciata libera di volare in cielo mentre il fuoco sale, aquila che i romani credono porti l' anima dell'imperatore dalla terra ai cieli; e da quel momento viene adorato con gli altri dèi."

Apoteosi dell’imperatore Tito

Gli imperatori che venivano divinizzati, venivano chiamati con l'appellativo di divus, titolo che precedeva tutti i loro nomi. Ma il divus, cioè il divino, non era però sinonimo di divinità. Attraverso la cremazione all'aperto dei resti mortali o di un simulacro dell'imperatore si simboleggiava la sua ascensione tra gli Dei della religione romana, ma solo in qualità di semidei. Tanto è vero che per onorare Cesare come divinità Augusto fu costretto a erigere un tempio a Quirino e inserirci la statua di Cesare. D'altronde anche Romolo divinizzato fu associato al Dio Quirino per poter ricevere dai posteri la "devotio" riservata agli Dei. Perfino Augusto dovette associarsi per essere divinizzato (ancora da vivo) alla Dea Roma e ad Apollo, condividendone onori e culto.



Il primo imperatore romano, Augusto, morì a quasi 77 anni, il 19 agosto del 14 d.C. a Nola. Il suo corpo fu portato a Roma a spalle dai notabili delle città situate lungo il cammino. Poi furono i cavalieri romani a incaricarsi di introdurre le spoglie di Augusto nella capitale. Quindi la salma venne trasferita al Campo Marzio, dove era stato costruito su suo ordine un mausoleo. La pira funeraria fu accesa da alcuni centurioni per volere del senato. Qui l’ex pretore Numerio Attico giurò di aver visto un’aquila uscire dal rogo per trasportare l’anima del defunto imperatore. Il magistrato diede così con il suo racconto una formidabile pinta all’apoteosi di Augusto che venne decretata il 17 settembre. A Roma era nato un nuovo dio.

Apoteosi di Augusto

Ottaviano/Augusto, come i suoi successori, aveva ben chiaro quale fosse il destino di tutti i mortali, ma sapeva altrettanto bene che - una volta rinsaldato il suo potere effettivo, prima con la non facile vittoria su Sesto Pompeo e in seguito, nel 31 a.C., su Marco Antonio ad Azio - per i suoi incommensurabili benefici al mondo intero, avrebbe potuto ottenere onori “isotheoi” (simildivini) nel mondo ellenizzato e una Consecratio ufficiale dopo la morte a Roma stessa, seguendo una tradizione non priva di modelli esemplari, come potevano testimoniare i casi di Romolo/Quirino e Cesare. Era solo questione di tempo e di modi.
A seguito della vittoria su Marco Antonio e Cleopatra ad Azio, il senato stabilì che si svolgessero feste in suo onore ogni quattro anni e cerimonie di ringraziamento agli dei il giorno del suo genetliaco e nell’anniversario dell’annuncio della vittoria navale, che i senatori e le vestali e tutti i cittadini gli andassero incontro in occasione dei suoi futuri ingressi in città, che avesse il diritto alla prima fila nei teatri e circhi, che gli fossero erette statue e che si celebrassero supplicationes in suo onore.
A seguito della conquista di Alessandria, fu decretato che quel giorno fosse considerato fausto, che ad Ottaviano fosse assegnato il diritto di essere tribuno a vita, di salvare chiunque avesse invocato il suo aiuto dentro il pomerio e fuori Roma per una distanza di sette stadi e mezzo, di giudicare nei processi di appello, con un voto determinante come quello di Athena nel processo di Oreste davanti all’Areopago.
Si decretò inoltre che i sacerdoti e le sacerdotesse pregassero anche in suo favore durante le supplicationes per il popolo e il senato, e che nei banchetti, sia pubblici che privati, fosse celebrato con libagioni.
Poco dopo, al sopraggiungere delle informazioni sui felici eventi con i Parti, il senato decise che il suo nome fosse aggiunto negli inni sacri a quello degli dei (sappiamo ad esempio che il suo nome fu inserito nel Carmen Saliare), che una tribù si chiamasse Iulia, che Ottaviano cingesse in tutte le feste la corona trionfale, che i senatori lo seguissero nel trionfo con le toghe purpuree, che il popolo facesse festa con sacrifici il giorno del suo ingresso a Roma, ritenuto sacro, che potesse eleggere sacerdoti in numero superiore a quello tradizionale.

Cavaliere Salio

Il potere politico di Ottaviano non aveva più eguali. In quanto decreti del senato, queste onorificenze valevano per Roma, anche se ebbero forti ripercussioni in tutto l’impero. Esse non creavano ufficialmente un nuovo dio nel firmamento olimpico, ma indubbiamente costituivano la premessa essenziale per una futura divinizzazione, e comunque spianavano la strada per determinate forme di omaggio al principe vivente che rasentavano talora il culto statale. Tale doveva essere l’inserimento del suo nome nel Carmen Saliare, cantato dai Salii durante il trasporto degli ancilia e destinato alla preservazione ed all’eternità dello stato romano. Le libazioni, effettuate durante i banchetti pubblici, potevano certamente essere destinate ad impetrare Ottaviano come un dio, ma potevano essere anche celebrate a favore di Ottaviano e della sua salus
.

Salii che portano le 12 ancilia


La medesima ambiguità, anzi accentuata, emerge nel culto privato. È nel comune sentire degli uomini credere nell’essenza superumana di coloro che li beneficano hic et nunc: e poco importa se la convinzione poggi o meno su basi religiose sicure e accettate da tutti. In Grecia il fenomeno era ormai attestato da lungo tempo, e il culto di personaggi viventi si presenta come un’espressione spontanea di gratitudine per i favori ricevuti. L’abitudine importata da Oriente dovette trovare nutrimento eccezionale su un terreno oltremodo fertile se si considera l’enorme peso che ebbe nella vita politica, economica e sociale il sistema clientelare.
Ottaviano/Augusto riuscì ad ottenere qualcosa di simile: uno spontaneo omaggio ammantato di religiosità da parte della popolazione dell’impero in cambio di tutti i benefici ottenuti con il ripristino di una pace duratura. Il suo culto che, stante l’attestazione di Appiano, e contrariamente a quanto si suppone di solito, si affermò rapidamente in Italia e nelle province, libere di celebrare lui, e in seguito i membri della sua famiglia secondo il loro gradimento, sarebbe divenuto un fondamentale collante dell’impero: si pregava l’imperatore o sull’imperatore si giurava, e sotto il suo sguardo vigile si svolgevano le transazioni commerciali ed i processi. Non meraviglia che, come afferma Appiano, ben prima che il divus Augustus fosse inserito, dal 14 d.C., nel novero delle divinità olimpiche, il culto dell’imperatore, associato a quello di altre divinità olimpiche o personificazioni come la dea Roma o il genio del senato, oppure, come si vedrà, l’omaggio offerto direttamente al suo genius o al suo numen, fossero già ampiamente diffusi. Evitando probabilmente di offendere città amiche con un rifiuto rispetto ai costumi locali, il principe permise ai Greci di procedere al culto nel ruolo meno impegnativo e già da lungo tempo adottato per i sovrani greci, di associato al culto. Ciò è avvenuto ad esempio a Olimpia, dove Augusto fu venerato nel Metroon come synnaos di Cibele, a partire dagli anni immediatamente posteriori al 27 a.C. La scelta di questo tempio, dedicato alla dea che simbolicamente commemorava le origini troiane di Roma, è sintomatica. Nell’attuale Turchia, all’epoca provincia d’Asia, Augusto fece erigere nella capitale Efeso un tempio dedicato al Divo Giulio (Cesare), dove i cittadini romani avrebbero dovuto svolgere le loro funzioni religiose. Quindi fece costruire un secondo tempio a Pergamo, dedicato alla propria persona, in cui poteva assistere ai riti chi non godeva della cittadinanza romana.

Anche in Italia non mancavano forme di culto, già in età precoce. Templi al principe ancora vivente sono documentati ancor prima del 15 a.C. a Terracina e a Pola (dove Augusto è associato alla dea Roma); a Benevento è testimoniato un Cesareo. Al 10 a.C. è databile il primo tempio del culto imperiale a Narona, in Croazia, mentre anteriore al 2 a.C. è l’Augusteo di Pisa.
A Roma, adeguatasi rapidamente, almeno nei più importanti testi letterari - nell'Eneide, Virgilio raffigura la deificazione di Enea, dicendo che verrà accompagnato sulle scale del Paradiso pagano - a queste forme apologetiche che individuavano nel benefattore dell’umanità un emissario degli dei, o dio egli stesso, sembrava impossibile, al contrario, procedere ad un culto ufficiale controllato dallo stato, con riti e sacerdozi specifici, per l’innata ritrosia di un senato che non vedeva di buon occhio il predominio continuativo e duraturo di un magistrato sull’intera classe dirigente, se non in determinate occasioni sapientemente vincolate.
Eppure, i versi dei poeti, alcune emissioni monetali e gemme in pietra dura o semipreziosa, dichiarano, almeno in apparenza, una posizione meno moderata. È chiaro che in poesia l’assimilazione del principe a un dio ricalca formulazioni retoriche che avevano i loro precedenti nell’ambiente delle corti greco-ellenistiche. In quanto produzioni a carattere non peculiarmente statale e rientranti in un genere specifico di ormai lunga tradizione, le apologie poetiche non sono affatto un documento ufficiale dell’epoca, ma rispecchiano, piuttosto, quello che poteva essere il sentire comune del popolo nei confronti del loro benefattore.

L’iniziale tendenza di Ottaviano a “chiuder un occhio” sulle forme più palesi di divinizzazione si manifesta con tutta la sua evidenza visiva nel ruolo ricoperto dal mausoleo che aveva iniziato a costruire negli anni posteriori a Naulochos nelle immediate vicinanze del Tevere, nel Campo Marzio settentrionale, e nel suo rapporto con il Pantheon. Con il suo diametro di circa 90 m, contava tra i più grandi edifici funerari del mondo antico. A tumulo erano le tombe degli eroi ed anche, forse, il Sema di Alessandro Magno, secondo la tradizione macedone.

Pantheon (Roma)

Non può essere dovuto al caso che il Pantheon di Agrippa, dedicato il 27 o il 25 a.C. alle principali divinità olimpiche, cui erano affiancati Romolo/Quirino e il divo Giulio, e collocato verosimilmente nel luogo stesso dove Romolo, secondo la tradizione, era asceso al cielo divenendo dio con il nome di Quirino, fosse stato costruito fin dall’origine – come hanno dimostrato recenti indagini di scavo – in asse con il mausoleo di Augusto, di modo che le due porte d’ingresso fossero l’una di fronte all’altra. È anzi verosimile che fin dall’origine un percorso rettilineo, rimasto intatto a lungo, collegasse i due monumenti. Agrippa avrebbe voluto inserire la statua di Augusto direttamente nella cella del tempio, ma il principe rifiutò, permettendo solo la collocazione delle due statue, sua e dello stesso Agrippa, nel pronao. L’episodio, avvenuto quando Ottaviano aveva assunto ormai il nome Augusto, rivela tra le righe il fine ultimo del Pantheon che, nelle intenzioni iniziali rivelate dal suo stretto rapporto con il mausoleo, doveva prevedere l’ampliamento del culto a Ottaviano ed alla sua dinastia, così come il mausoleo era destinato ad accogliere le spoglie del principe e dei membri della sua famiglia. Probabilmente questa era anche la funzione di molti Pantheia e Dodekathea diffusi in ambiente greco.

Il divo Augusto

Il gran rifiuto di Augusto apparve saggio, ma procrastinava solamente i tempi della sua Consecratio. Egli era già destinato come Romolo ad ascendere agli astri ed a prendere il posto che gli spettava di diritto entro la cella del Pantheon. La prodigiosa apparizione di un’aquila scesa, poche settimane prima della sua morte, sopra la lettera A del nome di Agrippa su un tempio – molto probabilmente il Pantheon - collocato nelle vicinanze dell’ara Martis, dove il principe, insieme con Tiberio, era in procinto di chiudere i riti connessi con il censimento, fu interpretata sia come annuncio della sua morte imminente, sia della conseguente ascensio ad astra.
Il traguardo finale di questa, come di molte altre operazioni, era di legittimare il nuovo regime con forme di omaggio a carattere religioso che innalzassero il principe al di sopra di tutti i mortali. Augusto nel suo tentativo di procedere ad una rivoluzione costituzionale dando tuttavia l’impressione di ripristinare la tradizionale res publica, aveva compreso che il consolidamento della sua costruzione politica e il passaggio indolore del potere ai suoi discendenti esigevano a priori la sacralità divina della persona del principe, per offrire al nuovo regime il necessario supporto simbolico e ideologico. Il fatto che beneficiasse da vivo del privilegio di un’associazione, che esprimeva compiutamente la qualità delle sue azioni capaci di renderlo già da vivo simile a un dio, dovette porre la riottosa classe dirigente senatoriale innanzi al fatto compiuto.
È possibile che già all’inizio degli anni 20 del I secolo a.C., avesse preso avvio lo spontaneo inserimento, a carattere non centralizzato né controllato dallo stato, del genius di Ottaviano – e qualche tempo dopo, del genius di Augusto – tra i Lari familiari, garanti della continuità del nucleo familiare, come omaggio dei Romani e degli Italici verso il loro protettore, quasi come riflesso di quel vincolo che legava i clientes con il loro patronus.
Non va comunque sottovalutata la base giuridica di tale passo, in quanto era la premessa per la trasformazione di un culto privato, e personale, in un culto pubblico, fosse esso destinato, appunto, al principe vivente oppure al suo genio, come effettivamente avvenne poco tempo dopo. Poco dopo la morte di Lepido nel 13 a.C., ma prima che il principe rivestisse finalmente la tanto agognata carica di pontifex maximus, fu probabilmente deciso che il genio di Augusto fosse inserito tra le divinità testimoni dei patti e dei giuramenti. Era già abitudine giurare negli atti privati in nome del genio del pater familias, ma ora il giuramento al genio di colui che reggeva l’impero assumeva una valenza ufficiale. Nello spazio fino allora occupato solo dagli dei della religione romana si veniva ad aprire una ulteriore breccia.
Una volta divenuto pontifex maximus, Augusto poté procedere alla mossa seguente, di organizzare il culto capillare del suo genio, ripristinando l’antico culto pubblico dei Lari Compitali, divinità protettrici del territorio urbano, celebrate lungo le strade o nei crocicchi. Del resto i romani credevano che le anime o Mani dei loro antenati diventassero divinità; e pertanto i fanciulli adoravano i Mani dei loro padri, così era naturale che gli onori divini fossero pubblicamente conferiti ad un imperatore defunto, che era considerato come il genitore della patria. Non a caso vennero attribuiti a Cesare che fu nominato in vita Pater Patriae. Così il genio di Augusto ebbe il suo culto pubblico, perché pubbliche erano le feste destinate ai Lari Compitali, dette Compitalia. Anche i sacrifici a lui dedicati salirono di peso. Se fino allora al suo genio erano offerti sacrifici incruenti, a partire dal 12 a.C. gli fu sacrificato un toro, alla pari con alcuni tra gli dei più importanti del pantheon romano, tra cui Giove e Marte, mentre ai Lari si sacrificava un porco.

Augusto, Pater patriae


Il culto dei Lari e del genio di Augusto non si arrestò a Roma, né fu circoscritto all’ambiente degli schiavi e dei liberti, ma si diffuse nelle città italiche dove già da tempo erano state impostate forme non omogenee di celebrazione del principe. e tuttavia, come afferma Appiano, già a partire dal 36 a.C. Ottaviano era celebrato in Italia con culti divini, vuol dire che esistevano fuori di Roma differenti soluzioni, equiparabili o alternative al culto del genio, che permettevano di onorarlo come dio vivente: basiliche e aedes, dette anche Augustea o Caesarea, diventarono in breve tempo i luoghi nei quali era consueta la presenza dell’immagine dell’imperatore e dei membri della sua famiglia.
Nell’8 a.C., con decreto del senato, il nome del mese Sextilis mutò in Augustus: e fu un ulteriore importante passo verso l’impostazione di onori quasi divini. Ormai Augusto era il padre e il tutore di tutti gli uomini, pronto a diventare, come effettivamente avvenne nel 2 a.C., più o meno all’unisono con il completamento e la dedica del foro di Augusto, pater patriae, assumendo il ruolo simbolico di pater familias non più solo dei Romani, ma di tutti i cittadini romani dell’impero. Le statue dei re di Alba e dei summi viri componevano una sorta di galleria degli antenati nel larario personale di Augusto, quasi che il foro fosse la sua domus.

Attraverso l’associazione al suo genio e a concetti astratti divinizzati; attraverso le numerose feste celebrate in suo onore; attraverso la modifica del dies natalis di molti templi, tra i fondamentali, con lo spostamento al 23 settembre, giorno della sua nascita; attraverso il suo nome prestigioso e ricco di valenze religiose; attraverso il suo cognomen dato ad un mese dell’anno, privilegio offerto fino allora solo agli dei, Augusto occupava pian piano buona parte degli spazi religiosi della città e dei tempi del calendario dedicati alle celebrazioni sacre. Fu una costruzione sapiente e geniale, che ha il suo traguardo nelle celebrazioni del suo funerale e della sua apoteosi. Il programma religioso così sapientemente impostato dal principe avrebbe regolato la vita ufficiale dell’impero e degli imperatori nei secoli a venire, fino all’avvento del cristianesimo.
A partire da Diocleziano e Massimiano, gli imperatori presero a divinizzarsi usualmente già in vita (cosa già tentata da Caligola, Domiziano, Settimio Severo e Aureliano), assumendo i titoli di dominus et deus, sebbene la vera apoteosi venisse effettuata solo dopo la morte. Diocleziano fu l'ultimo imperatore ad essere onorato con questa cerimonia e un culto postumo a lui dedicato.

Divinazzione di Germanico

 


Nel IV secolo d.C., con la cessazione dei riti pagani, anche la cerimonia di apoteosi venne meno. Fu sostituita dal titolo di isapostolo in vita e talvolta dalla santificazione dopo la morte di alcuni imperatori particolarmente meritori per la Chiesa cattolica o la Chiesa orientale, come il primo imperatore cristiano Costantino, sua madre Flavia Giulia Elena, la coppia imperiale Elia Pulcheria e Marciano, Teodosio I, Giustiniano I con la moglie Teodora, l'imperatrice regnante Irene di Atene, la reggente Teodora Armena e molti altri imperatori bizantini.

Costantino I, isoapostolo

Tipicamente nell'Apoteosi il soggetto glorificato viene rappresentato nell'atto di essere sollevato al cielo, praticamente nell'Olimpo. Il concetto, mutatis mutandis, sostituendo il Parnaso o l'Olimpo con il Paradiso cristiano, venne assunto pari pari dalla religione cattolica (che più che inventare copia) che fece assurgere in cielo Gesù, la Madonna e, nell'arte, parecchi santi.
Pertanto il concetto dell'apoteosi, condannato come atto di superbia dalla morale cattolica, diventa invece benedetto se usato per i miti cristiani, non solo di Cristo, ma della Madonna, che non è una Dea ma semplicemente una donna, e pure per i santi che vennero apoteizzati nelle chiese e nei conventi in magnifici affreschi parietali.




Venuto meno il significato politico e religioso dopo la scomparsa dell'Impero romano, l'apoteosi rimase però una delle tipiche raffigurazioni artistiche della gloria. Scomparve il termine, ma rimase intatta la scena con la sua teatralità. Un personaggio come Napoleone che si vestiva di rosso, che portava l'ermellino e si laureava il capo, esattamente come gli imperatori romani, non poteva sfuggire all'apoteosi. Dallo stile impero delle vesti e dei mobili, l'imperatore, che si sentiva molto Cesare, amò raffigurarsi come l'antico imperator romanus. Non manca neppure l'apoteosi degli eroi della Repubblica Francese, copiando perfino il volo dell'aquila prettamente e storicamente romana.

Apoteosi di Napoleone Bonaparte

Apoteosi dei veterani di Napoleone

Siti relativi alla deificazione in età romana:
Diventare un Dio: la divinizzazione di Giulio Cesare (WR Walks inside Rome)
Apoteosi romana (Romano Impero)
La divinizzazione di Augusto / di Fabio Herold (Lo sbuffo, 16/09/2018)
Dal culto di Ottaviano all'apoteosi di Augusto / Eugenio La Rocca (Marxists, L'Archivio Evemero da Messene, 2010)
Diventare un dio nel mondo romano (Il Manifesto, Alias Domenica, 17/10/2021)

 

Per libri sulla pratica della divinizzazione, sul culto imperiale ed altre pratiche di apoteosi del potere vedi la bibliografia annessa in basso: Apokolokyntesis, ovvero la deificazione della zucca

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