Apokolokyntosis, ovvero la deificazione della zucca, di Lucio Anneo Seneca

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Ultimo aggiornamento: 18/04/2024
La storia imperiale della Consecratio è materia che scotta sotto le penne d’oca dei commentatori e storici della Piena e Tarda Antichità, sia per l’odore bruciaticcio di sacralità e vicinanza agli dèi – a ricordare tutti gli obblighi di sacrifici, venerazioni e libazioni pubblici - sia per quell’aura di tirannide e assoluta arbitrarietà imposte dall’apparente austerità tardorepubblicana di Ottaviano Augusto, poi evaporata in un battibaleno per condensarsi nelle bizze, le stravaganze, le perversioni, le oscenità e crudeltà sacrileghe dei suoi successori. Che l’istituzione della deificazione (ante o post mortem che sia) non fosse amato, è dimostrato non soltanto dalla ritrosia con cui il Senato imperiale ne abbia concessa l’attuazione, ma anche da alcune voci dissacratorie che, di qua e di là, si sono levate a bersagliare la “stupidità imperiale” come per esempio La resurrezione degli scemi, un libello satirico in circolazione ai tempi del Divo Claudio.
Lucio Anneo Seneca

Lucio Anneo Seneca

Il testo che comunque mise maggiormente in croce l’istituzione, e soprattutto il destinatario dell’apoteosi, fu la satira, l’unica, scritta da Lucio Anneo Seneca con il titolo significativo di Apokolokyntosis, cioè la deificazione di una zucca. Il riferimento all’imperatore appena defunto non traspare a prima vista, ma era certamente implicita dato il titolo, se si vuole complementare, di uno degli manoscritti tramandati: Divi Claudi Apotheosis Annaei Senecae per Satiram. Lo “storico” Seneca vi ricorda le faccende della Consecratio di una zucca, vale a dire – in italiano non potrebbe suonare diversamente – del simbolo di stupidità per eccellenza. Il fatto di legare questo ipotetico episodio all’operato dell’imperatore Claudio la dice lunga su quanto favore l’abbia incontrato nel giudizio del filosofo stoico.

Imperatore Claudio

Seneca scrive quest'opera non solo per motivazioni personali (infatti Claudio, influenzato dalla moglie Messalina, lo aveva condannato all'esilio; prima Caligola lo volle addirittura condannato a morte), che poco si sarebbero adattate alle caratteristiche del "saggio" che egli ci descrive come modello nei suoi scritti filosofici, ma anche e soprattutto per ragioni di carattere politico e sociale: Claudio, infatti, era stato un imperatore autoritario e crudele, che aveva reso il Senato un burattino nelle sue mani e aveva condannato persone con processi sommari – proprio in virtù dei suoi privilegi “divini”.

L’avvenimento eccezionale che l’”anonimo storico” si propone di raccontare “obiettivamente” ("non ci sarà posto né per il rancore, né per l'adulazione") è l’ascesa al cielo di Claudio, subito dopo la morte. A dir la verità, la morte di Claudio era stata abbastanza laboriosa – pare che un primo tentativo di avvelenamento da parte di Agrippina fosse fallito richiedendo un ulteriore intervento sul moribondo – ma alla fine Mercurio, Dio truffaldino e quindi simpatizzante dell’imperatore, intercede per lui presso una delle tre Parche che, dopo qualche esitazione (dovuta principalmente per consentire a Claudio di beneficiare altri abitanti delle provincie della cittadinanza romana), taglia finalmente il filo della sua vita. A questo punto, il narratore non si lascia sfuggire l’occasione di cantare la brusca fine di Claudio, in contrapposizione alla vita splendente di Nerone, novello princeps di cui Seneca fu precettore. Una fine, quella di Claudio, vergognosa, suggellata dalla ultima voce, molto meno regale di quelle con cui gli storici erano soliti porre fine alle vite degli uomini famosi: “Vae me, puto, concacavi me!” (Povero me, credo di essermela fatta addosso). E Seneca calca ulteriormente la mano, sottolineando: “Se sia vero, non lo so, certo che ha smerdato tutto!”, in sottile riferimento all’operato del defunto.

Agrippina minore

L’imperatore arriva dunque in cielo (5, 2)! Della sua ascesa dovrebbe poter dare testimonianza il curator viarum, che purtroppo si rifiuta di comparire innanzi al Senato dopo uno smacco subito in relazione alla presunta deificazione di Giulia Drusilla, sorella ed amante di Caligola. Ma qui per lui la musica è cambiata: nessuno lo riconosce, nessuno l’ossequia, anzi l’arrivo di quell’essere zoppicante, deforme, che articola suoni incomprensibili, provoca, a prima vista, lo smarrimento di Ercole. Mandato da Giove con il compito di scoprire di che razza di uomo si tratti, il semidio non si dimostra molto sveglio collocando il locus nativitatis di Claudio – l’imperatore si era presentato con un verso aulico dell’Odissea per qualificarsi come re – dalle parti di Troia, in Asia Minore. Alla fine, per intervento di Febbre, l’unica dea che era sempre stata al suo fianco durante una vita segnata dalla salute cagionevole, lo smaschera come gallico, vale a dire proveniente dalla Gallia. Prima di presentarsi innanzi alla curia degli dèi il divo imperatore pensa bene a voler assicurarsi l'appoggio di Ercole, ricordandogli che, quale amministratore della giustizia davanti al tempio del semidio a Tivoli, egli, Claudio, abbia avuto quotidianamente "grane" con stormi di avvocati: "Se tu avessi avuto a che fare con loro, anche se hai fama di essere fortissimo, avresti preferito pulire le stalle di Augia. Molto più letame ho tirato fuori io ...".
Dopo una lacuna dei codici ci troviamo in piena assemblea dei celesti: una tra le divinità se la prende con Ercole per l’irruzione nella Curia con Claudio e conduce una requisitoria contro la divinazzione dell’imperatore, che non appare identificabile con alcun tipo di divinità. Giove fa allontanare dall’aula Claudio, che, in quanto privato, non può partecipare all’assemblea. La discussione degli dèi si svolge secondo la procedura del Senato romano: ogni partecipante viene richiesto del suo parere e dopo il dibattito si passa alla votazione. Se si eccettua l’intervento di Diespiter appoggiato da Ercole, che propone la divinazzione perché “ci sia qualcuno che possa divorare rape bollenti insieme a Romolo” (9, 5), tutti si esprimono contro l’apoteosi di Claudio: soprattutto Augusto, la cui famiglia è stata “dimezzata” dalle inique sentenze capitali del successore contro i suoi: "Stante il fatto che il divo Claudio ha ucciso il suocero ... propongo che si prendano severi provvedimenti nei suoi confronti e che non gli si conceda l'esenzione dal processo e che prima possibile venga messo al bando ... ."
Mentre nella Curia celeste si vota l’estradizione dell’imperatore dall’Olimpo, Mercurio lo trascina velocemente verso gli Inferi (11, 6). Durante la discesa, l’intero popolo romano assiste al solenne funerale, rallegrato dai suoni e canti in “lode” del defunto, che Claudio non si stancherebbe mai di ascoltare (13,1). Ma c'è un'eccezione: "Solo Agatone e pochi causidici piangevano, e proprio di cuore. I giureconsulti venivano fuori dalle tenebre, bianchi, emaciati, ... Uno di loro vedendo che confabulavano e piangevano le loro sfortune, si fece più vicino e disse: Ve lo dicevo, non sarà sempre bisboccia:". Non c’è comunque tempo da perdere e, in un frenetico susseguirsi di azioni, Mercurio lo afferra e “in un fiat” lo traduce, dopo aver sfiorato le fauci di Cerbero - Claudio ne rimaneva interdetto dato che: "in vita era solito trastullarsi con una cagnetta bianca" - al cospetto della corte infernale, dove sarà sottoposto al rito giudiziario più veloce tra quanti se ne siano mai svolti sotto la direzione di Claudio (celebre per la sommarietà dei suoi processi e delle conseguenti condanne a morte): all’avvocato difensore, rimediato in extremis, non viene infatti permesso di parlare (14, 2), ed Eaco, sentita una sola delle parti, lo condanna ad essere schiavo in eterno di un liberto, con mansioni di subalterno.

Imperatore Nerone

Seneca trasse lo spunto della composizione del libello direttamente dalla Laudatio funebre per la morte dell’imperatore pronunciata dal suo successore Nerone e scritta per quest’ultimo dal filosofo precettore stesso. Nerone era stato il primo imperatore ad aver bisogno della facondia altrui per mettere insieme un discorso. Fin quando – così racconta Tacito nelle Annales XIII – il giovane rampollo dovette esaltare la nobiltà di stirpe, le cariche e i trionfi di Claudio, la sua inclinazione alle arti liberali e la tranquillità interna da lui assicurata, l’uditorio l’aveva ascoltato con attenzione e serietà, ma non si era potuto astenere dal riso e dall’ilarità quando il nuovo principe era passato ad elogiare la “preveggenza e la saggezza” del vecchio. Dei solenni funerali e degli onori divini parla anche Svetonio nelle sue Vite dei Cesari: “Gli furono tributate solenni onoranze funebri, con la pompa principesca, e fu annoverato nel numero degli dèi.” (libro 5º, XLV), ma lo storico di Ippona chiarisce subito quale fosse il sentire tra nuovo e vecchio imperatore: “quell’onore che gli fu tolto e abolito da Nerone, ricevette restituito presto da Vespasiano” (ibid.).

Opere possedute dalla biblioteca che narrano la vita dell’imperatore Claudio:

Publius Cornelius Tacitus, Annali
Caius Svetonius Tranquillus, Vite dei Cesari
Robert Graves, Divo Claudio

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