Hannah Arendt

„Non ci sono pensieri pericolosi; il pensare stesso è pericoloso.“

Creato da:
Andras
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Ultimo aggiornamento: 22/08/2022

Quando a nemmeno 2 ore di volo un invasore investe con l’assurdo pretesto di voler “denazificare” una nazione sovrana, tutto sommato pacifica, investendola con ondate di distruzione, morte, di stupri, saccheggi ed altri crimini di guerra

quando lo fa con la motivazione di voler ridisegnare la mappa politica dell’Europa orientale liberando una popolazione presuntamente sofferente attraverso la deportazione e la cacciata dai luoghi natii

quando questo vagheggiato disegno neoimperialista riguardante l’intero continente euroasiatico si esplica addirittura nella velata minaccia dell’uso di armi nucleari

quando in questo terrificante contesto la realtà fattuale di una crudele guerra, di massacri di civili viene confutata e rovesciata in una menzogna che – al di là dall’essere mero strumento propagandistico – è segno di un non-modello di comunità e convivenza riecheggiante i totalitarismi del XX secolo

allora sale lo spettro di un ritorno a quanto già visto e vissuto, un riaffacciarsi e ripiombare nei tempi bui di arendtiana memoria. Confrontati con gli eccidi di inermi civili abbiamo sentito citare accanto a improbabili rievocazioni di Norimberga anche il concetto della “banalità del male”, proprio nella sua accezione di oblio della propria responsabilità, del diritto e dovere individuale di giudicare ciò che si fa, di distinguere il bene dal male. Eppure l’associazione del pensiero arendtiano con l’attuale situazione non si ferma alla tragedia bellica. Riguarda anche il fiorire del fascino di forme di governo totalitarie, autocratiche che si contraddistinguono per il progressivo soffocamento degli spazi pubblici aperti al libero scambio di opinioni, quindi il radere al suolo l’agorá di liberi cittadini tanto cara alla filosofa di Hannover, l’annientamento della libera azione politica e del dispiegarsi di un vivere insieme nella pluralità e l’imposizione di una società massificata, oppressa e indistinta, degradata a carta assorbente di un pensiero calato dall’alto. Evocazioni e manifestazioni di simpatia per regime autocratici e autoritari si sono levate sempre più apertamente e in mezzo agli stessi rappresentanti del nostro ordine democratico con l’implicito spregio per procedure di governo ritenute “troppo complesse e lente ed equilibri tra i poteri considerati superflui”. Risale spesso e in modo ossessivo l’appello al volere del popolo come organismo di massa miticizzato, indistinto e compatto, omologato e allineato in nome di un disegno politico esclusivo, ignorando la natura varia, plurale e dialettica di ogni società aperta.
L’opera di Hannah Arendt risulta quindi nella sua vivacità, nella sua complessità e nelle sue stesse contraddizioni ancora utile e, nella sua pretesa attualità, preziosa tanto nella lettura degli eventi contemporanei quanto nella sua attitudine di ripulire dalle incrostazioni ideologiche e dalle sciatterie semantiche massmediali i nostri concetti del pensare, dell’agire e giudicare, del vivere insieme, del dialogo con la pluralità, dell’eguaglianza e della libertà, infine dei diritti umani.
Testimone dei totalitarismi del XX secolo la Arendt, consapevole della "tabula rasa"  dell’intera tradizione filosofica e politica occidentale che la 2ª Guerra mondiale ha provocato, intraprese con coraggio e estrema coerenza la sua lotta affinché una nuova fede nell’umano possa redimere la violenza della storia e della politica del secolo breve. Gli avvenimenti attuali e le tragedie vicine del secolo iniziato stanno a testimoniare il persistente e disperato bisogno di redenzione del nostro tempo.

 


Azione, pluralità, discorso, comprensione, pensiero – capisaldi del pensiero arendtiano sulla condizione umana

 

AZIONE

L’agire umano è per Hannah Arendt – così si esprime in Vita Activa – la capacità di dare inizio a qualcosa di nuovo, ad una innovazione. Questa facoltà risulta secondo la filosofa tedesca ontologicamente radicata nella natalità. Ogni uomo serba quindi in sé un nuovo inizio, un potenziale d’azione che fa sì che il mondo, con le sue vicissitudini, è dominato dall’imprevedibilità, dal permanente affacciarsi del nuovo, dall’assenza di deterministiche leggi storiche. Questo magmatico imperscrutabile crearsi di innovazione  determina, nel bene e nel male, la responsabilità di ognuno di comprendere, di agire, di dare una sua risposta. Con l’analisi dell’esistenza a partire dalla nascita la Arendt contraddice drasticamente la nullità dell’essere ipotizzata da Heidegger, che concepiva l’umano stare nel mondo a partire dalla sua morte, quindi a partire da un suo limite insuperabile. Il miracolo della nascita preserva il mondo, e con esso le faccende umane, e conferisce alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell’esperienza, quindi dignità umana e libertà.

AGIRE POLITICO

La forma più elevata di agire, quella che esprime al massimo grado la dignità della condizione umana non è il fare produttivo, bensì l’agire politico, in cui si passa da un atteggiamento individualistico, rivolto a entità sublimi come la verità o la bellezza, o a valori materiali come il denaro ,a uno di relazione: il mondo che ci circonda non come materia da usare o palcoscenico del proprio protagonismo, ma come teatro dell’essere insieme, come uno spazio in cui ciò che si fa può trovare il suo significato per sé e per gli altri. La vita non è più fine a se stessa, ma si pone in rapporto con gli altri e con la vita insieme agli altri.
Il passaggio dal privato al pubblico e alla vita politica è dunque la nascita di una nuova possibilità umana, è libertà perché è iniziativa, esposizione, coraggio di lasciare la protezione dell’oikos e di uscire all’aperto, tensione e ricerca di sempre nuove occasioni di agire. L’agire politico è rivelazione di chi uno è.
Ciò esprime una convinzione generale: ogni essere umano può sottrarsi ai meccanismi che fatalmente lo condizionano e trovare un significato della propria esistenza, trasformando il contesto delle relazioni, tradizioni, regole che costituiscono la realtà che lo circonda nel luogo di un radicamento comune di esperienze, di un interesse attivo per tutto ciò che riguarda l’umano. In questo modo Arendt rilancia la dignità della vita pubblica e del dialogo tra cittadini come antidoto allo schiacciamento dell’individuo nella massa.

PLURALITA’ – CONDIZIONE UMANA

La condizione umana è fondata sulla pluralità - gli uomini e non l’Uomo vivono sulla terra e abitano il mondo – e tale pluralità è la condizione sine qua non del dispiegarsi della vita politica. Le molteplici forme del vivere quotidiano, dell’agire e del pensare si svolgono nello spazio dell’intersoggettività, di un orizzonte comune. Agire e pensare sono le modalità principali del rapporto dell’individuo con la condizione plurale dell’esistenza umana. In questa prospettiva la Arendt intende politica come scambio di gesti e parole sulla scena pubblica e pluralità quel concetto che crea nello spazio politico tra uomini un rapporto di potenziale libertà e uguaglianza.
L’umanità nella pluralità è costantemente esposta a trasformazioni dovute alla difficoltà individuale e collettiva di sopportare il rischio e la fatica delle differenze senza le quali non sarebbe tale. L’umanità deve essere considerata un debito, un obbligo nei confronti dell’umanità degli altri, perché la libertà e la capacità di agire si giocano sempre in rapporto al mondo condiviso. L’umanità che obbliga nei confronti degli altri con cui si condivide la terra non può essere un’”umanità” compiuta, ma è abitata da forze sempre in bilico tra umano e inumano, tra natura e cultura. Il profilo dell’umano individuale e collettivo è sempre in pericolo se non trova un aggancio nella pratica di relazione e discorso, nel rispondere e dare significato a ciò che si è e si fa.
Questa ridefinizione delle strutture della vita umana connaturate alla condizione umana in quanto tale rappresenta il tentativo drammatico di ripristinare il legame degli individui con il mondo circostante in un secolo in cui gli esseri umani si sono estraniati da se stessi nella massa, sono stati assoggettati a meccanismi autoritari e burocratici e sono stati trattati come “cose”.

PLURALITA’ E REALTA’

La condizione umana è plurale, ossia fondata sul fatto che gli “uomini vivono sulla terra e abitano il mondo” e tale pluralità è “la condizione di ogni politica”. Non è tuttavia scontato che la relazionalità costitutiva della condizione umana produca di per sé solidarietà, condivisione e partecipazione al destino altrui. In un’epoca in cui il dolore umano si è manifestato e continua a manifestarsi su scala sempre più vasta, provare  lo stesso dolore dell’altro non è l’unica possibilità di condivisione. Quando l’individuo incontra la storia e la politica nella loro versione più drammatica, l’impatto emotivo può essere aggirato servendosi di luoghi comuni, parole vuote generalizzazioni. La questione delle emozioni non riguarda soltanto  il conflitto con la razionalità, bensì i falsi sentimenti che assumono la funzione di surrogato di realtà sgradevoli. Per Arendt questo è un dato di realtà crudo e inequivocabile e, di conseguenza, all’approccio etico e compassionevole si devono contrapporre i “fatti”, la realtà sgombra di sogni, rimozioni e le sue rovine. Non accettare questo spostamento  dal registro del lamento e della denuncia alla comprensione significa cadere preda della “irrealtà”. Compassione, empatia, pietà non stanno fuori dalla storia e dalla politica, ma ci sono momenti storici in cui un’etica basata esclusivamente sulla sofferenza e sulla compassione non è sufficiente a garantire l’umanità degli esseri umani e a prevenire il male, ma bisogna porre la questione politica della giustizia e della libertà e capacità di agire degli altri.
L’orizzonte plurale dell’esistenza umana non garantisce una volta per tutte il senso della realtà e non rappresenta una modalità privilegiata con il mondo. Esso viene messo alla prova ogni volta in cui diventa occasione di risposta, di confronto e iniziativa personale all’interno di determinate circostanze storiche. Quando diventa dottrina, perorazione, magniloquente denuncia dei mali dell’umanità o filantropia, la passione della compassione facilmente si corrompe, trasformandosi in sentimento ipocrita, ideale consolatorio o forza violenta e distruttiva. Qui può avvenire un passaggio diretto dalla forza incontrollabile delle passioni alle ideologie e alla cieca obbedienza.

REALTA’ FRAGILE, COMPLESSA, FRAMMENTARIA

Anche la realtà di fatto è però fragile, esposta a manipolazioni, casualità, cancellazioni. Rinunciare a essa, tuttavia, implica il rischio di perdere criteri eticamente e politicamente importanti, come la distinzione tra fatto e menzogna e tra fatto e finzione. Fatti e eventi non garantiscono un approccio inequivocabile alla realtà. La loro evidenza concreta deriva dall’essere il risultato dell’agire e vivere insieme degli esseri umani. I fatti “non contengono in sé nessuna verità inerente, nessuna necessità di essere come sono. Le verità fattuali non sono mai necessariamente vere”. Essi sono quindi infinitamente vulnerabili perché accadono nell’ambito mutevole delle attese e delle paure. La realtà non è un oggetto esterno, con leggi e strutture indipendenti da chi la vive, ma ha una tessitura complessa in quanto viene data in esperienze vissute di tipo emotivo, cognitivo, pratico. Niente è scontato o automatico, perché la realtà viene sperimentata in forma di negazione, di scelta, di sfida, di immaginazione da parte di ogni essere umano. L’evento irrevocabile diventa punto di partenza per un impegno.
 La storia e la politica entrano nell’esperienza soggettiva a partire dalla costituzione relazionale dell’io e della realtà, dal vivere in un mondo abitato da altri, e trasformano le attività umane, il vedere e il sentire, il parlare, agire e pensare in un confronto, una scelta, un’occasione di risposta in cui si affermano (o si negano) la libertà e la dignità umana.
Arendt propone una concezione della realtà e dell’esperienza che non ha niente di compatto e di unitario, è frammentaria e discontinua e ha come sfondo l’incalcolabilità e l’imprevedibilità dell’agire umano. D’altronde l’incontro con il mondo non comporta sempre il rivelarsi della realtà come apertura, iniziativa e creatività. Esso può configurarsi come un impegno rivolto esclusivamente alla conservazione, alla difesa e al radicamento nelle condizioni di vita. L’imparare a “diventare umani” scambiando gesti e parole, prendendo posizione, mettendo in atto l’essere insieme, è in grado di dirci qualcosa sull’agire individuale nella sua dimensione più sfuggente e difficile, quella del rapporto di conflitto, di sproporzione con gli avvenimenti storici e politici, con i processi impersonali.

VERITA’ E MENZOGNA

L’appello alla realtà e all’esperienza si misura con la questione della verità e della responsabilità, ossia con l’ostinato problema di un individuo che non può esonerarsi dal mettere in rapporto se stesso, i propri bisogni, credenze, passioni, amicizie e lealtà con l’implicazione nelle vite degli altri e nelle organizzazioni sociali e politiche, un individuo che, in sostanza, è chiamato a scegliere, a impegnarsi in prima persona, a distinguere il bene dal male.
Nelle esperienze della realtà vengono messe in gioco valori come la verità, il coraggio, l’orgoglio e l’amore per la saggezza e la giustizia. Si tratta di scelte e di atteggiamenti che presuppongono e possono rafforzare la condivisione di uno spazio comune, ma attingono a fonti che oltrepassano  la vita pubblica, a valori e ideali – verità, bontà, giustizia – a cui inerisce una latente violenza, quella dell’assenza di vincoli rispetto alla realtà, e della conseguente imposizione della prospettiva unica, universale, atemporale, di un mondo migliore di quello reale, sottratto alla mutevolezza degli affari umani.
La verità razionale fa violenza alla pluralità di prospettive  tipica della vita politica, che vive di opinioni, sempre in bilico tra negazione e menzogna, e la possibilità di cambiare e la capacità di agire. Lo spazio in cui si decide ogni volta questa scommessa non è quello dell’etica, bensì quello del dibattito pubblico, senza il quale ogni verità autoevidente risulta coercitiva perché priva di legittimazione. Mentire per Arendt non è semplicemente negare i fatti, ma rappresentarli come un tutto ordinato e coerente, dotato di una logica, e renderli autosufficienti rispetto alla pluralità delle opinioni e all’impatto con la realtà.
Dire la verità non è la capacità di ancorare una decisione di agire a fatti incontestabili, ma mostrare una situazione nella sua ricchezza fattuale in modo da escludere che da essa segua automaticamente una conclusione, l’instaurazione di una teoria o un’ideologia.  Così ognuno preserva e testimonia il valore testardo della realtà,  l’idea di una verità che, pur essendo legata all’accadere, ai fatti attestati dalla percezione,  vive e si trasforma con la vita, e chiama a rendere conto delle fedeltà e infedeltà, delle scelte, azioni e omissioni che segnano il rapporto di ciascuno con il mondo.
In particolare, nel dire la verità, nel coraggio di farlo  il rischio della vita pubblica viene vissuto in prima persona da individui che mettono in gioco se stessi, a volte la vita, spesso l’onestà e la sincerità.  Il prezzo pagato non è sempre quello dell’eroismo, bensì, più di frequente, è quello della menzogna oppure di “errori” ambiguamente intessuti nelle ideologie e illusioni di un’epoca storica. Non bisogna dimenticare l’insistenza arendtiana sulla condizione di un’epoca in cui è avvenuta la trasformazione di “ogni verità in banalità priva di significato”, e la “pubblicità” si è rovesciata in “chiacchiera”.

COMUNICARE - RACCONTARE

Anche per questo  il dire la verità, la capacità di “dire le cose” viene messa in atto ingaggiando una strenua battaglia con il linguaggio per trovare le “parole vere”. La sensibilità per il linguaggio condiziona e diventa modalità centrale di rapporto con il mondo. Arendt investì molto nella scrittura come modo di stare al mondo, forma di pensiero vissuto, comunicato ad altri. Insistente è la sua attenzione all’impoverimento del rapporto con la realtà che si verifica quando  le parole perdono di significato. La radice della verità è infatti legata all’accadere, ai fatti attestati dalla percezione, e insieme alla possibilità di ricordarli, di non cancellarli. L’”irrealtà  è una forma di “povertà dell’esperienza”, di drastico azzeramento della capacità di comunicare il vissuto.
Il mondo non è umano perché è fatto da esseri umani, e non diventa umano solo perché la voce umana risuona in esso, ma solo quando è diventato oggetto di discorso. Uno degli incubi che probabilmente la perseguitò tutta la vita fu il venir meno della possibilità di raccontare, di trasmettere ciò che accade. Il passato rischia di scomparire se non irrompe nel presente, ritornando attuale attraverso la voce di chi ricorda e giudica.
Dipanando il filo della menzogna, Arendt osserva che la manipolazione di massa dei fatti e delle opinioni non richiede solo la fabbricazione di una realtà altra, in cui tutto torna, ma soprattutto l’autoinganno, il mentire a se stessi. Mentire a se stessi implica rovesciare radicalmente il rapporto tra sincerità e menzogna, cancellare la distinzione del vero e del falso, arrecando un danno irreparabile alla complessa tessitura della realtà, alle sue differenze, ai suoi chiaroscuri e contraddizioni. In questo orizzonte si colloca la riflessione degli ultimi anni sul pensare e sul giudicare.

PENSARE

Per Arendt il pensiero non ha nulla a che fare con la filosofia, ma è un’attività inerente alla condizione umana, in quanto corrisponde a “pensare a ciò che facciamo”. Il pensiero è quindi un’attività in cui “non si fa niente”, non si producono risultati e nemmeno teorie o verità definitive, e ciò rappresenta un indispensabile antidoto nei confronti delle filosofie, ideologie e metafisiche che hanno ambito a fissare i principi della condotta e della convivenza umana. Al tempo stesso, proprio perché, mediante l’immaginazione, ri-presenta, riconfigura ciò che è accaduto ampliandolo in direzione dei suoi molteplici sfondi, il pensiero risponde alla realtà, ossia all’”invito a pensare che costantemente ci proviene da ogni evento e ogni fatto della nostra esistenza”.
Ciò che ha sconcertato gli appassionati lettori di Arendt è stata tuttavia l’affermazione che il pensiero, considerato dall’intera tradizione un’attività politicamente marginale coltivata in solitudine, cessa di esserlo quando “ogni posta è in gioco”. In quei rari il pensiero “è realmente in grado [– a differenze delle istanze emotive o morali -] di impedire le catastrofi, almeno per il proprio sé”.
Se il dire le cose così come sono, dire la verità  è già un modo d’agire, perché rimette in movimento la complessità e il dinamismo della realtà e del suo intricato tessuto di azioni e relazioni umane, analogamente il pensiero – che nasce dalla verità come sua sorgente - in situazioni di emergenza può acquistare un ruolo “politico”, poiché il suo profilo distruttivo si traduce nell’astensione dal consenso e dalla partecipazione a un regime in cui tutti pensano allo stesso modo: “pensare senza balaustra” e “tra tutti gli sgabelli”, rifiutando gli schieramenti della destra e della sinistra.
L’io pensante muove dunque un’obiezione radicale alle condizioni date del mondo da vivere. Il “pensare da sé” è un modo peculiare di non essere d’accordo con il mondo. Un io ideale, solo contro tutti, sembra essere  in forte contraddizione con l’amore per il mondo. Tuttavia il principio della pluralità, proprio della condizione umana si manifesta nella dualità della coscienza che si interroga sul bene e sul male, su ciò che è giusto e su ciò che è sbagliato. Essere amici e nemici di se stessi diventa, in questa lettura , la figura di una coscienza morale che non ha alcuna straordinarietà,  ma corrisponde all’esercizio di una capacità comune a tutti gli esseri umani, che non sono solo animali razionali, ma anche “animali pensanti”. La capacità di pensare viene così ridefinita. Essa non è contemplazione del Vero, bensì attività,  ed è molto simile al dialogare, all’interrogare, al porre domande, al correre da un’opinione all’altra. Chi pensa, in altri termini, da vittima dello scontro di forze che lo oltrepassano diventa giudice.
Arendt non ha lasciato dubbi sul carattere eminentemente  negativo di un pensiero che opera distruggendo regole di condotta accettate, illusioni ed egoismi, e chiedendosi instancabilmente: “Le cose stanno veramente così?” Altrettanto innegabile è la sua contestazione dell’etica fondata su principi universali o sull’altruismo e la compassione. Se il pensiero può predisporre a un atteggiamento morale, ciò riguarda essenzialmente la capacità di distinguere il bene dal male, il ruolo del pensiero come preparazione al giudizio. La capacità di giudicare riguarda infatti “la più comune esperienza”, e rimette in discussione l’esistenza di un “io” che non deve solo convivere con se stesso, ma vive anche nello spazio più ampio delle relazioni sociali e politiche.
Nell’epoca dei totalitarismi viene meno l’intuitiva capacità di distinguere il bene dal male corrispondente ai sentimenti morali, al provare dolore per la sofferenza dell’altro, sentirsi colpevoli o innocenti e quindi responsabili dei propri atti. Tali “realtà permanenti vitali” si sono rivelate completamente inaffidabili, indici di conformità o di non conformità a regole esterne, omologazione  ed allineamento
L’esplosione delle opinioni e delle preferenze personali è l’altra faccia del conformismo e di un’etica le cui regole si cambiano come le abitudini a tavola. Sullo sfondo di una crisi della “pubblicità” tuttora inarrestabile, Kant offre ad Arendt la possibilità di raggiungere un punto di vista universale non attraverso il riferimento ad una regola o a un principio, ma in virtù di un allargamento della prospettiva, di un “modo di pensare ampio”, fondato sul tener conto degli altri, sull’anticipare il loro punto di vista mediante l’immaginazione. La comunicabilità e la pluralità, il legame tra gli esseri umani diventano così criteri di un’universalità intersoggettiva, valida solo a partire da un’esperienza contingente e particolare.

PROCESSO EICHMANN

Il suo fu uno sforzo spericolato e doloroso di capire come “funzionasse” la coscienza di Eichmann, che tipo di “essere umano” egli fosse, rifiutando di considerarlo un mostro perverso e pazzo. Alcuni si chiedono ancora oggi se questa posizione in bilico tra prossimità e distanza non l’abbia fatta cadere nella trappola del “personaggio” ligio al dovere recitato da Eichmann, che in realtà fu un fanatico antisemita.(1) Si trattò invece di uno spostamento da sé per andare all’opposto.  Questa era la realtà per Arendt, il contatto con l’alterità , anche quando essa s’incarnava nell’abissale differenza di un altro essere umano. Non si trattava  di un comprendere per perdonare, bensì, per quanto i termini siano estranei al suo vocabolario, ci fu un’empatia senza simpatia, un “mettersi nei panni di un altro” senza possibilità alcuna di condividerne pensieri, sentimenti, desideri.
La volontà arendtiana di comprendere continua ad apparire intellettualistica nell’epoca che ha riabilitato le emozioni, ma ha anche trasformato la memoria dei sopravvissuti, i video-archivi, i musei e i memoriali in un’esperienza estetica melodrammatica, in cui l’immedesimazione cancella l’orrore dell’accaduto. Dell’indicibile faceva parte anche il rifiuto di ammettere la fragilità dell’empatia delle vittime. All’epoca in cui i grandi processi portarono alla ribalta la questione morale dello sterminio e in particolare diedero voce alle testimonianze e alle memorie, Arendt si rese impopolare ribadendo la convinzione che molti resoconti dell’orrore comportavano un distacco dall’esperienza con la conseguente “tentazione di tradurre l’indicibile in tutte le espressioni emotive che sono più a portata di mano, pur rivelandosi del tutto inadeguate allo scopo”.
Uno degli incubi che probabilmente la perseguitò tutta la vita fu il venir meno della possibilità di raccontare, di trasmettere ciò che accade. Il suo severo giudizio delle testimonianze al processo Eichmann deriva dall’esigere un racconto che stimoli l’immaginazione e sottragga la trasmissione del passato al conformismo. Il passato rischia di scomparire se non irrompe nel presente, ritornando attuale attraverso la voce di chi ricorda e giudica.
Arendt considerò fallito il processo Eichmann perché non aveva potuto essere il dramma della giustizia ed era diventato lo spettacolo della sofferenza. I lacunosi racconti dei sopravvissuti, la memoria frammista a cose lette o immaginate nel frattempo non avrebbero contribuito alla comprensione del crimine dell’imputato.

(1) Risulta a tal riguardo fondamentale lo studio sulla personalità di Eichmann di Bettina Stangneth, La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme.

EBRAISMO

Arendt non fu un animale politico, come dimostra l’idiosincrasia, espressa più volte, per l’appartenenza a gruppi o partiti. Sono rari i luoghi in cui Arendt dice “noi”.  La critica della compassione mostra come il “noi” del comune destino non sia che una proiezione dei sentimenti dell’io sui fantasmatici “altri”. La difficoltà di dire “noi” (l’antisemitismo ebraico che le fu spesso rimproverato) ha tuttavia un significato centrale. Arendt rifiuta di consegnare l’ esperienza esistenziale e politica dell’esilio, dello sradicamento e dello sterminio all’idea convenzionale dell’umanità.
Accusata da Scholem di mancare di Herzenstakt, di delicatezza d’animo e di amore per il popolo ebraico, Arendt replica di amare solo i suoi amici. Il dato di fatto di una donna ebrea, nata e cresciuta in Germania, non può essere scambiato con nessun tipo di appartenenza di gruppo, di etnia, di partito, di fede: “[…] io non “amo” gli ebrei, né “credo” in loro; sono semplicemente una di loro (I merely belong to them). Questo è un dato di fatto fuori discussione.”
La questione dell’origine ebraica viene tagliata di netto: non si tratta dell’”identità personale”, bensì della scelta di definirsi, non come l’individuo unico e irripetibile, ma come membro di un gruppo. E questo perché l’unico frammento di realtà concesso a un “paria” è la realtà della persecuzione, attaccata in quanto ebrea, si difende da ebrea.

Fonti:  Laura Boella, Hannah Arendt. Un umanesimo difficile, Feltrinelli, 2020

    Julia Kristeva, Hannah Arendt. La vita, le parole, Donzelli, 2005

 


Elenchiamo di seguito alcuni siti, filmati e podcast su Hannah Arendt e il suo pensiero politico:

 

Uomini e profeti. Narrazioni – 28/02/2021 – Maestre che insegnano a pensare – Hannah Arendt

https://www.raiplayradio.it/audio/2021/02/Maestre-che-insegnano-a-pensare-con-Laura-Boella-1-puntata---Hannah-Arendt-c3e5f34d-6585-4880-98fe-e56de884beb4.html

Pantheon – Hannah Arendt tra passato e futuro

Puntata 1
https://www.raiplayradio.it/audio/2021/04/PANTHEON--01-Hannah-Arendt-tra-passato-e-futuro-96227cff-4958-4de2-8616-2bb6e129967e.html
Puntata 2
https://www.raiplayradio.it/audio/2021/04/PANTHEON-02-Hannah-Arendt-tra-passato-e-futuro-79b56567-2850-4327-a663-7780eab4b734.html
Puntata 3
https://www.raiplayradio.it/audio/2021/04/PANTHEON--03-Hannah-Arendt-tra-passato-e-futuro-223e494c-e0e9-4603-8736-59c40d5073c4.html
Puntata 4
https://www.raiplayradio.it/audio/2021/04/PANTHEON--04-Hannah-Arendt-tra-passato-e-futuro-182b4c29-9b9b-4336-8927-b54b6db510af.html
Puntata 5
https://www.raiplayradio.it/audio/2021/04/PANTHEON--05-Hannah-Arendt-tra-passato-e-futuro-6b7f136b-2fbe-4a30-8fc7-5334e0596085.html
Puntata 6
https://www.raiplayradio.it/audio/2021/05/PANTHEON--06-Hannah-Arendt-tra-passato-e-futuro-9eddca0c-56e7-4c65-8dcf-28c6bf857f0b.html
Puntata 7
https://www.raiplayradio.it/audio/2021/05/PANTHEON-07-Hannah-Arendt-tra-passato-e-futuro-5bd652c7-b4af-4cc1-8563-42e61750f681.html
Puntata 8
https://www.raiplayradio.it/audio/2021/05/PANTHEON-08-Hannah-Arendt-tra-passato-e-futuro-4c718477-b066-4b92-9ab9-2f9d7035f296.html
Puntata 9
https://www.raiplayradio.it/audio/2021/05/PANTHEON--09-Hannah-Arendt-tra-passato-e-futuro-2f5c2d4b-518e-48e1-97ab-e93d7b03c042.html
Puntata 10
https://www.raiplayradio.it/audio/2021/06/PANTHEON-10-Hannah-Arendt-tra-passato-e-futuro-33157e9b-051f-44ad-b302-3accb4aaa818.html
Puntata 11
https://www.raiplayradio.it/audio/2021/06/PANTHEON--11-Hannah-Arendt-tra-passato-e-futuro-c737214d-814b-48e5-a21b-752481a7a3a4.html

it.wikipedia

https://it.wikipedia.org/wiki/Hannah_Arendt
https://it.wikipedia.org/wiki/Hannah_Arendt_e_Martin_Heidegger
https://it.wikipedia.org/wiki/Nessuno_ha_il_diritto_di_obbedire

de.wikipedia

https://de.wikipedia.org/wiki/Hannah_Arendt

Conferenza a cura di Simona Forti (Università del Piemonte orientale) nell’ambito del ciclo "Classici della filosofia tedesca" per "Torino incontra Berlino". Coordinamento scientifico di Pier Paolo Portinaro con il sostegno di Fondazione per la cultura Torino. (1 ora, 32 min.)

https://www.youtube.com/watch?v=uSQM3-1D7EE

Olivia Guaraldo - Hannah Arendt : La banalità del male

https://www.youtube.com/watch?v=ZQ9fZKWMoDw

Elena Pulcini - Vita activa di Hannah Arendt - festivalfilosofia 2009

https://www.youtube.com/watch?v=UAulOavtp18

Hannah Arendt. Kritische Gesamtausgabe - Complete works. Critical edition (tedesco, inglese)

https://www.arendteditionprojekt.de/

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