La gente di montagna, chi è? A rispondere a questa domanda ci si cade con estrema facilità nel calderone degli stereotipi. Troppo spesso e facilmente ci si orienta sulle immagini trasmessoci dalla letteratura romantica – fieri abitanti delle Alpi che eccellono per onestà, rettitudine e franchezza (l'immagine del buon selvaggio), o al rovescio, esseri segnati dalla loro istintiva ferinità, malvagità degna di demoni saliti dagli inferi (si vedano i protagonisti dell'opera romantica di
Carl Maria von Weber,
Il franco cacciatore). A dare un colore ancor più vivace a queste figure ci pensava la letteratura di inizio XX secolo con il frequente accostamento dell’abitante delle valli e delle alture ai suoi coinquilini del mondo animalesco. Si trattava sempre di specie dotate di particolare fascino, come l’aquila, l’orso ed il lupo, specie che a quei tempi erano – nelle Alpi – già date per estinte. Un esempio eloquente del fascino narratologico che la simbiosi tra uomini ed animali provocava è il romanzo della così detta
Geierwalli (Valtruda degli Avvoltoi), scritta da
Wilhelmine von Hillern. Vi si narra di una ragazza, espulsa dalla casa paterna – e quindi dall’intero consesso sociale comunitario – lotta solitaria per i suoi diritti patrimoniali e d’amore. Palati più fini potevano all’incirca nello stesso periodo dilettarsi con la storia altrettanto romantica, ma più addomesticata di
Heidi della svizzera
Johanna Spyri. Ambedue i racconti sono stati scritti da persone estranee al mondo rurale ed alpino, dame della buona borghesia che trascorrevano il loro tempo libero nelle vicine montagne della Svizzera e dell'Allgäu baverese. Ripetiamo ora la domanda: come erano allora questi montanari. Erano in gran parte e prima di tutto contadini. Pochissime persone godevano del privilegio di non sporcarsi le mani di terra. Anche gli esponenti più ricchi del villaggio erano coltivatori diretti. Come appartenenti al collettivo della comunità rurale ne godevano della coesione, ma spesso ne subivano anche la relativa coercizione sociale. Chi cercava o era costretto a sottrarsi ad esse – come nel caso dei nostri due romanzi – subiva il marchio della diversità e con esso la privazione del diritto di mutuo soccorso. Cosa significasse questa esclusione nel quadro di un’economia di sussistenza/sopravvivenza è facilmente ipotizzabile. Quindi l’immagine di un consorzio umano egualitario, coeso sotto le stelle alpine era ed è tutt’ora una mistificazione. Le planimetrie umane dei paesi erano spesso segnate da creature disgraziate – storpi, ritardati o alcoolisti – che venivano riconosciuti come membri della società contadina, ma che ne erano anche i suoi parafulmini e zimbelli.
Che dire poi del montanaro per eccellenza, il malgaro. Descritto – sulla scia del nonno di Heidi – come tipo umano ruvido ma bonario, sembra essere baciato dalla fortuna di una vita sana in mezzo alle montagne, all’aria aperta, a contatto con le proprie bestie. Che il più delle volte si trattava di persone con problemi di socializzazione – dovuti proprio alla loro prolungata lontananza dal consesso umano – viene sottaciuto. D’altronde la quotidiana lotta contro una natura spesso ostile e violenta e i prolungati periodi di solitudine dovevano lasciare tracce sull’animo e sull’intelletto di queste persone – molti trovarono difficoltà espressive di parola ed affetti negli scambi sociali. Basta pensare ai pastori e
gauchos della Terra del Fuoco di cui
Francisco Coloane ha descritto magistralmente le corde umane.
Una vita dura – di sacrificio si direbbe oggi – grama e poco riconoscente delle energie investite. In questi termini andava valutato il destino dei contadini di media/alta montagna. Un’agricoltura di emergenza sotto un clima di continui rovesci meteorologici ed esistenziali. I rischi di incidenti fisici e disgrazie che spesso si verificarono nel portare al pascolo il bestiame, nel taglio e riporto del fieno d’estate e d’inverno rendevano la sopravvivenza un gioco di lotteria. In più vi erano tante bocche da sfamare in un modello agricolo particolarmente bisognoso di braccia e perciò propenso a tassi di natalità relativamente alti. Quando si toccavano densità demografiche non più compatibili con il regime economico alpino si procedeva inesorabilmente all’espulsione della manodopera superflua. Il risultato erano giovani che dovevano lasciare il paese, stagionalmente o definitivamente, uomini che finivano nelle miniere di tutto il mondo, infine bambini che venivano affidati/venduti ai borghesi o artigiani di pianura o di città - il fenomeno dei così detti
Schwabenkinder (figli della Svevia) del Tirolo occidentale affidati a famiglie delle città del Baden Württemberg.
La realtà della montagna si dimostrava essere molto dura – come anche altre consimili in contesto diversi – e lontana mille miglia dall’idillio dipinto nel secolo scorso e commercializzato oggi. Certo il mondo degli affetti, dei sentimenti, delle gioie e dei dolori esisteva anche allora, dettava pure l’andamento esistenziale delle persone, ma pure esso velato da una scorza più dura, quella inspessita dalla durezza della vita. La considerazione e il rapporto con l’infanzia del mondo di una volta ci insegnano d’altronde che le sensibilità e le premure del nostro mondo borghese sono una conquista tanto recente quanto transitoria. La stessa convivialità era segnata dall’essere duro di parola, scarno nelle espressioni e incerto nelle emozioni.
Si direbbe che è stato dipinto un quadro antropologico dell’
homo alpinus se non proprio terribile, per lo meno deprimente. Si tratta invece di un’immagine certamente non priva di sprazzi di luce, di felicità ed allegria, di simpatia ed empatia, ma certamente diversa dallo stereotipo creato quasi 200 anni fa, perpetrato nel secolo scorso e venduto fino ai nostri giorni. Mostrare che anche l’uomo montanaro di allora era una realtà sfaccettata e multicolore è un nostro dovere ed un suo diritto
post mortem irrinunciabili.
La successiva lista di suggerimenti bibliografici, per altro implementabile, vuole essere un piccolo contributo a questa prerogativa.
Abbiamo pensato di unire alla voce
Storie di gente di montagna quella di
Fatiche di montagna poiché queste ultime erano a condizionare inevitabilmente le vite e quindi i tratti antropologici di chi viveva nelle zone alpine.