Il ritorno di un re, ossia il piacere di una lettura sull’Afghanistan distinta dal grande rigore scientifico e veicolata attraverso il raffinato gusto di entertainment di un aristocratico scozzese.
William Dalrymple , da profondo conoscitore dell’Asia sudorientale, ci porta 150 indietro, quando con la Compagnia delle Indie Orientali – fino ad allora longa manus della corona e dell’imperialismo britannici - fu la prima volta che una potenza occidentale aveva osato ad addentrarsi nella ragnatela afghana. Le tragiche vicende della 1ª guerra anglo-afghana diventano così occasione per un viaggio nelle esotiche corti di Lahore, Peshawar e Kabul scoprendo una cultura raffinatissima, una ricchezza indescrivibile e – manco a dirlo – una diversità di cultura mentali e comportamentali, a prima vista insuperabili.
I paesi intorno all’Indo ed all’Hindu Kush, descritti dallo storico scozzese, non sono ancora straziati da decenni di sfruttamento coloniale, da guerre civili ininterrotte, ma emettono ancora – seppur per poco - quel flaire da “Mille e una notte” delle corti dei Shah in Shah a Teheran, Isfahan o Samarcanda , dell’immensa fioritura culturale del regno persiano. Quest’ultimo vedrà anch’esso di lì a poco ridimensionato il proprio potere e glamour ad opera dei due principali attori coloniali dell’Asia centrale e sudorientale, l’Inghilterra e la Russia. Gli invasori britannici sono vedono sopraffatti dagli elaboratissimi, quanto ferrei cerimoniali di ospitalità, dalla profondità culturale e spirituale delle conversazioni nei darbar, le corti reali, dalla liberalità con cui i sovrani elargiscono doni e riconoscimenti, e dalla pompa con cui si sigillano alleanze ed amicizie. Ma sono anche atterriti dal rovescio della medaglia, vale a dire dalle atrocità commesse dal vincitore nei confronti dei vinti, dagli accecamenti, dalle castrazioni perpetrati contro esseri inermi, dal non risparmiare né donne né bambini e vecchi, dalla sistematica mutevolezza delle alleanze e dai tradimenti attuati con una regolarità tanto sconcertante quanto apparentemente cinica. Restano pure sbalorditi dalla facilità con cui il potere regio evapori non appena il sovrano si vede privato dell’appoggio delle singole periferie tribali. Il terreno afghano appare così agli attori anglosassoni sempre più come un pozzo dalle acque torbide con il fondale invisibile.
Dalrymple non osserva mai gli avvenimenti con la lente dell’uomo di cultura occidentale, semmai sottolinea l’incapacità inglese di una lettura più sfumata, rispettosa delle complessità, contraddizioni ed estraneità del “problema” afghano. Quest’ultimo richiederebbe invece un osservatore paziente che possa cogliere la trama della ragnatela come se fosse un puzzle di disegni floreali che fanno da ornamenti alle moschee moghul. L’amministrazione della Compagnia delle Indie, e con essa l’Empire, invece passano sopra queste peculiarità e “stranezze” con la rozzezza di un rullo compressore. Presi dall’isteria di un imminente discesa dell’Impero dello zar verso l’Industan – simile a quella del post-11-settembre – i politici di Calcutta ignorano le voci allarmate dei pochissimi conoscitori della terra ad ovest del Khyber. Accecata dalla sete di profitto, con la presunzione di portare sotto il vessillo del futuro Rule Britannia una civiltà superiore – quella democratica-occidentale? - nelle lande geograficamente e culturalmente deserte degli altipiani e delle vallate del Paropámiso, l’armata della regina va incontro, con un immenso costo di energie e vite umane, ad una tra le sconfitte più amare. Amara sarà comunque anche la vittoria dei vittoriosi in quanto il tabula rasa lasciato dai regimenti britannici, segnerà definitivamente, dopo la decadenza della dinastia Durrani e la lunga serie di guerre tribali della fine del XVIII secolo, l’inizio del “moderno” medioevo afghano.
Anche se già allora lo sbandieramento del ricorso alla jihad fu uno strumento abituale per compattare i ranghi contro un nemico esterno, va detto che, alla luce di quanto ci dice Dalrymple circa la civiltà afghana del XIX secolo, la barbarie talibana rappresenta una novità assoluta ed inusuale per i popoli dell’Hindu Kush, una netta rottura con la storia, con la ricchezza culturale afghana, un innesto ibrido di fondamentalismi deobandi e wahabiti d’importazione.
L'annientamento dell'armata anglo-indiana durante il ritiro dall'Afghanistan nel 1842 ha scosso l'opinione pubblica di mezza Europa. Anche il poeta e scrittore tedesco Theodor Fontane ne è rimasto colpito al punto da scrivere la ballata della "Tragedia dell'Afghanistan" (in tedesco ed inglese).

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