Quando si pensa ai nativi americani vengono in mente per contrapposizione i cowboy, le diligenze, il mondo di fine '800. E quando si pensa all’America degli anni sessanta vengono in mente le auto enormi, il rock ‘n' roll, il progresso e le lotte di emancipazione. Sembrano due epoche differenti che non possano coesistere. Eppure in quegli anni era ancora molto forte il disprezzo per i nativi e l'affermazione di superiorità dell'uomo bianco.
Il governo canadese istituì le scuole residenziali per nativi con lo scopo di istruire i bambini alla civiltà dominante ma di fatto sequestrava i bambini alle famiglie di nativi impedendo loro di avere contatti con la loro cultura, storia e tradizioni e anzi cercando di estirparle con la forza dalla loro memoria. Queste scuole furono attive a lungo e crearono una perdita culturale molto forte ed esposero i bambini a violenze e abusi. Saul Cavallo Indiano è proprio uno di quei bambini. Questo libro è allo stesso tempo bellissimo e terribile. Dopo averlo finito mi è rimasto nella mente a lungo. Mi ha colpito molto il tono di rancore che accompagna tutto il libro.
Entriamo nella vita di Saul pagina dopo pagina, dall'infanzia nei boschi camminando sul confine tra leggende, visioni, sensazioni e gli "spiriti cattivi" dentro le bottiglie, gli spettri dell'alcolismo.
Non sempre l'eroe vince, non sempre la storie finiscono bene. Per tutta la lettura speriamo in una riscossa in una giusta compensazione per quanto subito ma è una spirale continua che ci trascina nella vergogna del disprezzo per il diverso, nell'umiliazione, nel prendere coscienza di quanta meschinità possa esserci non solo in un singolo individuo ma in un'intera comunità che si crede eletta e superiore.