In una delle sue ultime interviste, lo scrittore Jorge Amado dichiarò che «...Il Brasile è la somma meravigliosa di ogni possibile contraddizione: in ogni uomo veramente brasiliano scorre un sangue ricco di fermenti europei, africani, indios, meticci, ed è proprio questo che rende il Brasile così magicamente colmo di luci ed ombre, così fragile, allegro, violento, e tuttavia così impossibile da dimenticare».
Nato nel 1912 in una fazenda presso la città di Itabuna, nello stato di Bahia, figlio primogenito del colonnello Joao Amado de Faria e di Dona Eulalia Leal, Jorge Amado trascorse i suoi primi anni nel mondo delle piantagioni di cacao, del cui commercio il luogo natiò, assieme alla vicina città di Ilheus, erano allora capitali mondiali. All’età di 10 anni il piccolo Jorge si trasferì a Salvador de Bahia per frequentare il ginnasio presso il collegio dei gesuiti. Fu nella città più africana del continente che il giovane studente e giornalista – egli collaborò alla rivista Diário da Bahia sulla pagina di cronaca nera e poi al quotidiano O Imparcial a partire dal suo 15º anno – ebbe modo di confrontarsi con le più profonde contraddizioni in campo sociale, economico, politico e culturale di cui il paese soffriva. Malgrado la sua estrazione privilegiata Amado sin dall’inizio della sua lunga vita artistica mostrava una spiccata sensibilità per i ceti più svantaggiati ed una forte vicinanza alla loro cultura. Fu uno tra i fondatori dell’Academia de los ribeles, che si batteva contro l’insipida letteratura ufficiale, accusata di disimpegno sociale e sorda ad ogni tipo di rinnovamento culturale.
Jorge Amado, ventenne
Il clima politico dell'infanzia e dell’adolescenza dello scrittore fu contrassegnato dalle violente lotte per il possesso della terra, dalla repressione dei moti emancipatori degli afrobrasiliani, i quali – la schiavitù domestica e agricola era stata abolita nel 1888, ma di fatto, era continuata in modo subdolo, con il latifondismo e le paghe irrisorie – continuarono a vivere in miseria e precarietà sia nelle campagne dei grandi facendeiros che nelle città dell’incipiente industrializzazione, come appunto Bahia. Quest’ultima fu governata da una borghesia bianca, capitalistica, arroccata nei suoi privilegi e letteralmente terrorizzata dalle possibili rivolte dei ceti miserabili, formati quasi del tutto da neri e mulatti. La denuncia degli squilibri sociali e delle discriminazioni razziali percorrono come un filo rosso tutte le opere di Amado e gli valsero la persecuzione politica nonché l’esilio durante i periodi della dittatura militare. È soprattutto nei primi romanzi, da Il paese di Carnevale a Cacao e Suor, poi Terre del Finimondo, e soprattutto Tocaia Grande e i tre volumi di Sotterranei della libertà che l’intellettuale narra le violenze, le brutture, il banditismo e la povertà estrema del nordeste brasiliano denunciandone l’esplicita radice razziale.
Jorge Amado e Gabriel
Garcia Márquez
Di fatto, anche se nelle altre opere mantiene vivo l’impegno politico-sociale rivoluzionario, lo scrittore bahiano vi si immerge più approfonditamente negli aspetti antropologici e culturali dei dimenticati dal progresso, delle loro espressioni di dolore, gioia, rassegnazione e voglia di vivere. Amado vi diventa, universalmente riconosciuto, l’interprete del meticciato culturale brasiliano, della "negritudine", dei ceti miseri e disagiati contrapposti alla placida borghesia pietrificata. In questo contesto socio-culturale Jorge s’imbatté già da adolescente nella Santèria, e soprattutto, con l’arrivo nella città del Salvatore, nella sua versione bahiana, il Candomblé. Non è un caso che pressoché tutte le sue opere diano testimonianza, più o meno approfondita, dello spirito di questa credenza religiosa animistica, importata dall'Africa. Una manifestazione ricca di riti magici, danze iniziatiche sfrenate, offerte votive di ogni genere a dèi splendenti e terribili. Si tratta di un’espressione sincretica religiosa propria della popolazione nera e meticcia, di una filosofia esistenziale che nasce dalle necessità vitalistiche di un popolo sradicato dalla terra natìa, sbattuto orfano nelle piantagioni del Nuovo Mondo, discriminato, perseguitato, ma disperatamente attaccato alle sue radici culturali.
Jorge Amado Leal de Faria ne è l’indiscusso bardo, l’appassionato e stregato oga, difensore, del mondo brasiliano non bianco con le sue feste, le sue gioie, con la sua estetica di una religione sconosciuta ai canoni europei. “Il Candomblé” – così si espresse lo scrittore di Bahia – “ci ha salvato dalle nere vesti di Nazaré”, facendo riferimento alle donne vestite di scuro che solevano attendere lungo le spiaggie del Portogallo atlantico con ansia e disperazione, e molto spesso invano, i propri mariti pescatori.
STORIA DELLA “COLONIZZAZIONE” AFRICANA DEL BRASILE E DEL CANDOMBLÉ
Come è possibile che un culto di origine africana, portato dagli schiavi nel Nuovo Mondo a partire dal XVII secolo, sia stato capace di caratterizzare, orientare e di lasciare l’impronta su tantissime delle manifestazioni culturali brasiliane? La storia del popolamento di questo immenso territorio, la presenza della schiavitù, il Cattolicesimo di stampo portoghese, senz’altro predominante ma “morbido, accondiscendente, in fondo inconsapevolmente illuminato e per nulla intransigente, ha favorito la “strategia di resistenza” prima e quindi la forza penetrativa di un insieme di culti strutturatisi a Bahia intorno alla metà dell’Ottocento.
Schiavitù
Sangue, sudore, lacrime … e ancora braccia e divinità. É fatto di questo l’apporto africano al Brasile, e non è certo poco. Nei cupi forti che costituivano i porti di partenza delle navi negriere dal Golfo di Guinea verso il Nuovo Mondo si mischiarono tradizioni, culti, lingue. E, appunto dèi, chiamati, a seconda dei luoghi e delle lingue, Orixás, Inquissi o Vodun. In Africa permeavano ogni luogo, ogni pianta, impregnando tutto di una forza sovrannaturale, di un fluido magico. I colonizzatori europei che portarono via uomini e tentarono di distruggere idee, culti, miti, riti strapparono anche questo legame tra il divino e la natura.
Siamo attorno al 1550. La tratta comincia ad avere le sembianze di un vero e proprio flusso, doloroso e vergognoso che durerà fino alla decade del 1860. Gli schiavi arrivavano dall’Africa centrale (Angola, Congo), dall’Africa orientale e soprattutto dalle zone di quella che sarà successivamente chiamata la Costa degli Schiavi, comprendente gli attuali stati del Ghana, Togo, Benin, Nigeria e in particolare i popoli di lingua fon e yoruba. Saranno questi ultimi ad influenzare, più di altri popoli, la storia del Candomblé.
Fino alla metà del XVIII secolo, gran parte della popolazione africana importata nel Nuovo Mondo era destinata alle grandi piantagioni di canna da zucchero del Pernambuco e di Bahia, mentre, con la scoperta dell’oro di Minas Gerais, nella seconda metà dello stesso Settecento il traffico viene deviato più a sud, dando vita al cosiddetto “Ciclo de Oro”.
Si presume che tra il 1525 e 1851 più di cinque milioni di africani furono trasportati verso il Brasile, ridotti in condizioni di schiavitù. Su cento persone che sbarcarono in Brasile in questi tre secoli, 86 erano schiavi africani e 14 coloni portoghesi. Le sostanziali differenziazioni – soprattutto tra etnie parlanti idiomi diversi – subirono l’inevitabile processo di ibridazione: un insieme di popoli che in Africa erano politicamente e culturalmente eterogenei vennero assimilati, nella prassi e nell’immaginario della diaspora.
Oltre a Salvador, capitale fino al 1763, anche le altre città come Recife, São Luis, Belém, Porto Alegre e Rio conobbero l’impatto urbano della schiavitù. Lo spazio urbano vide importati linguaggi, abiti, profumi e odori, che vennero ricreati e reinterpretati. “Piccole afriche” vennero riproposte qua e là. Fu una maniera non solo per sopravvivere, ma anche per tradurre e modificare i tratti della cultura originaria nel tropico americano. Capoeira, batuque e altre manifestazioni di origine africana nacquero così in queste città della costa atlantica.
A prevalere nelle regioni africane interessate dalla tratta degli schiavi erano o il culto degli antenati, o quello degli spiriti della natura. Il primo – officiato dalle popolazioni bantu – data la sua fissità ad uno specifico luogo – non ha potuto sopravvivere nel Nuovo Mondo dopo lo strappo dalle terre natie. Nel frattempo, verso l’inizio del Settecento, arrivarono i popoli yoruba dal Golfo di Guinea. Questi, che conoscevano una struttura politica stratificata - ogni città era governata da un re, un obá - non avevano – essendo arrivati per ultimi – dimenticato del tutto la propria origine. Il pantheon yoruba era insomma quello che aveva più possibilità di affermarsi. E così fu. Gli Orixás sono entità che rappresentano gli antenati divinizzati e simboleggiano espressioni delle forze della natura, aspetti della cultura o della vita umana. Ognuno degli Orixás aveva in patria un luogo specifico per il culto e una comunità preposta esclusivamente alla sua venerazione. Per di più sembrano aver rispecchiato nelle relazioni che intercorrono tra di loro i conflitti esistenti tra i vari centri urbani della Nigeria: Oyó, la città di Xangô, Ketu, di Oxóssi, Abeokutá, centro del culto di Iemanjá, e Ilexá da dove provengono i culti di Oxum e Logun Edé. Tante caratterizzazioni non potevano certo essere riprodotte nelle piantagioni e in cattività. Occorreva organizzarsi e adattarsi. Tanto più che già nei porti di partenza etnie, lingue, tradizioni religiose si mischiavano in maniera estemporanea e confusa, dando vita a un meticciato originale e creativo, che avrà la propria apoteosi nelle Americhe, incontrando il Cattolicesimo e in parte le religioni degli indigeni.
I culti, di fatto, si accorparono tra di loro, privilegiando quegli aspetti del politeismo che non sembravano troppo distanti e incomprensibili per l’uomo bianco cattolico. Si affievolirono un poco quelle caratteristiche legate alle forze della natura che erano il privilegio degli Orixás a vantaggio dell’antropomorfizzazione delle stesse divinità, che di fatto divennero riconoscibili, grazie al processo di sincretizzazione con i santi del Cattolicesimo di stampo iberico. Il Candomblé, in quanto creazione brasiliana, si è strutturato inoltre tenendo a modello la famiglia poliginica yoruba, dove le famiglie estese abitano in compound, residenze collettive. Il terreiro, nel Candomblé, riproduce questa Africa in miniatura. La gerarchia s’ispira a quella forma di famiglia, dove i più giovani devono rispetto agli anziani.
Zumbi de los Palmares
Si può quindi ben dire che il corpo e la mente degli schiavi abbiano fecondato il Brasile come lo conosciamo. La piantagione era inizialmente il fulcro della vita lavorativa, collettiva, culturale e sociale della colonia oltremare ed era dominata dall’idea di controllo e di dominio da una parte, e di resistenza dall’altra. Quest’ultima era sfociata anche in fughe collettive di indigeni e africani che diedero vita, fin dal XVI secolo, a villaggi e microsocietà di fuggitivi, chiamate quilombos o mocambos. Tra queste comunità la più celebre fu quella denominata Quilombo di Palmares, con il suo leader Zumbi, che durò più di cent’anni, dal 1575 al 1743.
Il Pelourinho, il palo
della gogna
É in questo clima che nasce il Candomblé, che viene elaborata l’idea che si struttura poi a partire dal 1850 a Bahia. I costumi familiari africani si sono mischiati a quelli sviluppati dalla colonia. Unioni illegittime, mal tollerate dalla chiesa cattolica, erano all’ordine del giorno, mentre le figure delle domestiche e delle balie venivano ora sensualizzate ora nobilitate. Da qui la genesi della mitologica possanza e sabedoria di queste donne al cospetto della fragilità, fisica e psicologica, delle sofisticate donne bianche brasiliane.
Le donne africane e creole furono fin da subito una presenza costante nelle piantagioni e incisero in maniera decisiva nella formazione culturale brasiliana anche in città. A Rio, Recife, Bahia le donne schiave erano ricercate per lavorare, oltre che come domestiche nelle residenze private, nel commercio ambulante, come lavandaie e stiratrici e naturalmente come prostitute.
È in questo equilibrio di antagonismi che si forma il Brasile, che si costruiscono le sue tradizioni.
Sincretismo
Se è vero quindi che le tracce della genesi si perdono nelle foreste e nelle savane africane, ai tempi della schiavitù, è altrettanto vero che le divinità africane nel Nuovo Mondo, incontrandosi con il Cattolicesimo popolare dei portoghesi, si adattarono nella maniera più originale e geniale.
Nel periodo della schiavitù, era comunque consentito agli africani di riunirsi in gruppi omogenei, con propri “re” e “governatori”. Queste confraternite e società di mutuo soccorso si trasformavano gradatamente nei gruppi afrobrasiliani del Candomblé. Gli ex schiavi miravano a integrarsi nella società non in quanto individui africani, ma come cittadini in tutto e per tutto brasiliani.
Inconsapevolmente, erano stati i grandi proprietari terrieri a permettere la genesi del sincretismo, innescando un processo che avrebbe preso loro la mano. Questi padroni ritenevano che, riunendosi nelle loro cerimonie chiaramente improvvisate, rinnovando la forza dei propri simboli e dei propri valori, gli schiavi diventassero più produttivi. Sarebbe stata dannosa una durezza eccessiva. Per di più, nelle celebrazioni che si tenevano in quel laboratorio culturale che era la piantagione, gli stessi bianchi immaginavano venissero celebrati la Vergine Maria, Gesù Cristo e i santi cattolici. E così scattò immediatamente negli schiavi africani la possibilità di associare i loro Orixás e Voduns ai protagonisti della religione cattolica.
I rappresentanti della Chiesa cattolica, nonostante l’emergere di una dissidenza interna, per lo più tolleravano ipocritamente l’istituzione della schiavitù: in fondo facilitava la conversione degli infedeli. A poco a poco, grazie a un Cattolicesimo tutt’altro che intransigente come quello lusitano, si formò il sincretismo religioso, che inglobava tante sopravvivenze di origine africana, rielaborandole in maniera originale.
A stabilire le corrispondenze, nel Candomblé, può intervenire l’iconografia (litografie dei santi), le funzioni terapeutiche, il ruolo corporativo o le biografie dei santi. La risposta a queste acclarate corrispondenze si può trovare sempre; basta un po’ di buona volontà e di creatività, di capacità di trovare analogie, come quelle tra l’Orixá personale di ognuno e il proprio angelo custode.
Se il culto africano è stato fortemente innervato di elementi cattolici, va sottolineato anche come il Cattolicesimo popolare lusitano, già di per sé sincretico e plastico, si sia trasformato in terra brasiliana, grazie ai contatti con gli afro-discendenti, in qualcosa di straordinariamente vicino a un culto messianico e magico, nel quale i santi hanno visto accresciuta la loro importanza a discapito persino della Santissima Trinità.
Il sincretismo che possiamo osservare è piuttosto un incoerente mosaico che riunisce elementi di diversa provenienza senza fonderli.
Un sincretismo di corrispondenza – tra i santi e gli Orixás si stabilisce una vera identificazione – per cui Iansã, divinità della tempesta, divenne santa Barbara, Iemanjá, dea del mare e del fiume Niger, fu identificata con la Nostra Signora dei Naviganti; Oxalá, la divinità pura e perfetta, fu sincretizzata con Gesù Cristo. Simbologie, iconografie, racconti della vita dei santi avallano, sollecitano, invitano a creare parallelismi: Exu, per il suo carattere lascivo e sregolato, assunse il ruolo del diavolo, Ogum, Dio della forza e della guerra, divenne il San Giorgio che uccide il drago.
Altarino Candomblé
Il “presepe” di Yemanjá
Un sincretismo temporale, per cui si “usano” le grandi feste cattoliche come occasioni per celebrare rituali afro: la festa di Santa Barbara o Yansã del 4 dicembre; 8 dicembre si celebra la festa della Conceição da Praia, vale a dire l’Immacolata Concezione, nel sincretismo religioso afro-brasiliano, la festa di Yemanjá; Processione del 1 gennaio di Buon Gesù dei Naviganti alla chiesa Conceição da Praia dove lo aspetta la Santa Vergine, sua madre. L’uno e l’altro, il Buon Gesù dei Naviganti e l’Immacolata Concezione, sono trasposizioni cattoliche del mito di Oxalá e Yemanjá, signora delle acque.
Numerose sono le feste sincretiche, descritte con passione e colore da Jorge Amado nel capitolo Il popolo in festa del libro Bahia, nelle vicende folgoranti di Santa Barbara dei Fulmini, dove a descrizione della festa del giovedì de Nosso Senhor de Bonfim l’autore commenta:
“[...] chi non è devoto del Signore del Bonfim – i suoi miracoli non si contano – chi non ricorre ad Oxalá dagli ebó infallibili? [...] Le baiane iniziano il lavaggio dell’atrio e delle scalinate, si adempie agli obblighi di candomblé: Exe-e-babá! […] Arrivato dal Portogallo ai tempi della colonia per il voto di un naufrago lusitano afflitto, Nostro Signore del Bonfim; arrivato dalle coste dell’Africa al tempo del traffico dei negri, sulle spalle insanguinate d’uno schiavo, Oxalá. Sorvolano entrambi la processione, s’incontrano in petto alle baiane, si tuffano nell’acqua odorosa e si confondono, sono un’unica divinità brasiliana. E conclude che “quelle baiane poco prima in trance sul sagrato stavano ora inginocchiate nella navata del tempio a recitare il paternoster.”
Nosso Senhor do Bonfim il
giorno della festa
Il lavagem, il lavaggio
rituale della chiesa
A volte le due anime della religiosità brasiliana si scontrano come dimostrano le inclinazioni devozionali di zia e nipote, esplicitate sempre in Santa Barbara dei Fulmini:
“Adalgisa arrivava da Siviglia nel corteo della Processione del Cristo Morto, il Venerdì di Passione, avanzava soffusa di compunzione e pentimento, coperta da una mantiglia nera, recitando litanie al suono sinistro delle raganelle: Mea culpa! Mea culpa! Si macerava battendosi il petto. […] Manela, sua nipote” - frequentava all’insaputa di Adalgisa - “la processione del lavagem, quella del Giovedì del Bonfim, quella delle acque di Oxalá, avvolta in giubilo e letizia, vestita con lo sfolgorante abito bianco delle baiane. In testa portava il vaso di coccio pieno d’acqua profumata per il lavaggio della chiesa e avanzava danzando e cantando musiche di carnevale.”
Tanto basta ad Amado per poter constatare, tra lo sconsolato e consolato: “Anche in questa terra di Bahia, dove tutto si mischia e si confonde, nessuno è capace di discernere la virtù dal peccato … santi e orixá abusano di miracoli e stregoneria, ed etnologi marxisti non si meravigliano nel vedere la statua d’una santa cattolica trasformarsi in una mulatta tutta seduzione al calar della notte.” Santa verità, vista la reazione di un esponente del clero all’apparizione della Santa – Barbara o Yansá/Oyá che sia: “Don Massimiliano, caduto in ginocchi, glorificò il Signore, poi si prosternò ai piedi della Santa e le baciò l’orlo del mantello. Pareva piuttosto un figlio di Oyá in atto di eseguire il dobalé, saluto di obbedienza e di predilezione”.
L’influenza sincretica si propagò anche nelle vite ordinarie dei brasiliani, attraverso le loro consuetudini, i loro riti e le loro appartenenze sociali e culturali. Sempre nel libro Bahia assistiamo alla morte di mãe Senhora, iyalorixá, madre-di-santo (sacerdotessa) dell’Axé dell’Opô Afonjá. La celebrazione dell’axexê (funerale candomblé) viene officiata da parte di una sorella-di-santo, anch’essa iyalorixá, prima che il corpo venga portato nella chiesa cattolica. Importante madre-di-santo, la Senhora era allo stesso tempo un membro importante di una delle confraternite cattoliche. Anche nell’intimo delle case si riflette il miscuglio di credenze, superstizioni sull’oggettistica devozionale:
“Nell'angolo della parete di fondo l'altarino di Oxóssi, con le sue armi, l'arco, le frecce, l'erukere, una stampa di san Giorgio in atto d'uccidere il drago, una pietra verde – feticcio forse di Yemanjá e una collana dai chicchi azzurro-turchese.”
Il Candomblé, la Macumba e le altre manifestazioni religiose afroamericane servirono e servono tutt’ora quale spazio del orgoglio nero e pardo, del ritrovare la propria identità brasiliana di derivazione africana. Una consapevolezza che è costato sofferenza, sangue e oppressione. In Jubiabá il protagonista pardo Antonio Balduino sogna terre lontane, percorse nella sua vita da marinao, quando, all’improvviso:
“Il ritmo del batuque scendeva da tutte le colline, suoni che dall’altro lato dell’oceano erano stati suoni di guerra, batuques che annunciavano battute di caccia e battaglie. Oggi erano diventati suoni di supplica, voci schiave che invocavano aiuto, masse di negri che ormai avevano i capelli bianchi, portavano sulla schiena i segni della frusta. Oggi macumba e candomblé ripetevano quei suoni perduti. Erano come un messaggio a tutti i negri, negri che in Africa ancora combattevano e cacciavano, negri che gemevano sotto lo scudiscio del bianco. … i suoni gli entravano nelle orecchie e attizzavano l’odio sordo che viveva in lui. … Vedeva file di negri; vedeva quel negro segnato sulla schiena che aveva conosciuto in casa di Jubiabá. Vedeva mani callose che battevano la terra, vedeva donne negre con figli mulatti avuti da signori bianchi. Vedeva Zumbi dos Palmares trasformare il batuque della schiavitù in batuque della guerra. Jubiabá, nobile e sereno, educare il popolo schiavo. Vedeva se stesso ribellarsi all’uomo bianco.”
FILOSOFIA DEL CANDOMBLÉ
L’eredità africana, che ha fortemente connotato la cultura brasiliana, permette di percepire la comune credenza – o meglio, il comune orientamento cognitivo – che al mondo visibile ne corrisponda un altro, parallelo e invisibile, dimora delle divinità, antenati divinizzati e geni della natura, che sono i responsabili della vita degli uomini, la guidano e la orientano nel mondo terreno.
La pratica religiosa consente questa mediazione, questo contatto continuo che si nutre di sacrifici, orazioni, offerte, danze e possessioni che fanno parte del cerimoniale, segreto e non. Pur senza trascurare la vita dopo la morte, il Candomblé è decisamente un culto pragmatico, essendo ogni pratica, ogni sforzo e ogni pensiero quotidiano rivolti alla risoluzione dei problemi di questo mondo. Hic et nunc.
Il pae-de-santo Jubiabá nell’omonimo romanzo è guaritore: “Jubiabá procura medicine ai malati , a questi Jubiabá distribuisce foglie d'erba e preghiere; altri vengono da lui perché traditi dalla moglie, desiderosi di una donna che non li vuole; questi hanno bisogno di grosse stregonerie, di mandingas, di fatture. Padre Jubiabá protegge gli amori, li fa cessare, strappa una donna alla mente di un uomo, ficca un uomo nel cuore di una donna. Egli conosce i segreti dei potenti, conosce la vita degli umili.”
L’intervento di un altro sacerdote, il babalao Paizinho, è risolutorio là dove i ginecologi si erano già arresi: “ … e la signora giovane lì cerca il Paizinho, lui rimedia in un istante. Eh, sor Joao?” Joao Alves confermò: “Paizinho? Gli fa una fattura nella pancia ed è un figlio all'anno garantito.”
Il Candomblé è un culto flessibile, duttile, plastico aperto e accogliente. È pure un importante mezzo di ascesa sociale, perché far parte di un centro prestigioso e svolgere, all’interno di questo, una funzione di rilievo significa acquisire visibilità e autorevolezza. In una società connotata da grandi disequilibri e da una mobilità sociale molto precaria, la costruzione di senso e di valori dipende dalla possibilità di scelta dei cittadini. Proprio la religione, in Brasile, è il luogo della scelta, il campo dove si possono sperimentare desideri e orientamenti comunitari e individuali, insomma è il momento della libertà.
Tra gli aspetti più curiosi del culto del Candomblé vi è l’assenza di separazione tra il principio del bene e quello del male, che non vengono visti come due poli antitetici ed esclusivi, ma come due facce della stessa moneta. Buoni e malvagi: così sono gli Orixás, così gli esseri umani, così la natura, la società, la vita. Il Candomblé è stato definito perciò una religione a-etica. Non c’é – non ci sarebbe – spazio nel Candomblé per senso del dovere, per l’idea di ricompensa o di pietà, per la “salvezza”. Trasgredire significa non eseguire correttamente i rituali, non disattendere un codice etico e normativo. Gli Orixás, con le loro caratteristiche e i rituali, rappresentano la fonte e i guardiani della moralità degli adepti. Essi agiscono mossi da passioni simili a quelle che appartengono agli uomini, non hanno, noi diremmo, scrupoli morali.
Del primo marito di Dona Flor - in Dona Flor e i suoi due mariti - si raccontava appunto:” … il carattere dell’estinto [Vadinho] era problematico. Egli era d’altronde votato ad Exu [sincretizzato nella figura del diavolo], ma: “quando Vadinho era in vena, non esisteva uomo più incantevole di lui, né una donna capace di resistergli. ... per lui, … , il mondo non era stato certo una valle di lacrime, ma piuttosto il palco delle sue farse, beffe, imbrogli e peccatucci. E pur essendo un simpaticone, un cuor gentile e un cattivante, innamorato anche post mortem di sua moglie, nel momento in cui Flor gli rammenta la proibizione di non prenderla con la forza, lo spirito le risponde: “Proibizione? E di chi? Non esiste né dio né diavolo che mi possa proibire qualcosa. Non lo sai? Oppure hai vissuto con me sette anni e ancora non hai imparato a conoscermi?”
Da sempre si è discusso sul confine labile tra magia e pratica religiosa, ma nessun sacerdote sembra preoccuparsi eccessivamente della questione; anzi i più si compiacciono di detenere un impiego o una professione, che contempla tanto la mansione di sacerdote spirituale quanto quella di mago, o feitiçeiro, come si dice in Brasile. La pratica magica – avere la convinzione che un atto possa servire a cambiare la realtà – non soltanto “completa”, per così dire, l’offerta di servizi al cliente, ma contribuisce alla costruzione di un’interpretazione peculiare del mondo, permette al culto flessibilità e la capacità di mantenersi come religione a-etica. Ognuno può accostarsi alla religione come meglio crede. In altri termini ognuno è autorizzato a costruirsi il proprio modello di spiritualità, ignorando i grandi sistemi religiosi.
Il Candomblé insegna che prima ancora che adorare gli Orixás è imperativo accettare, anzi amare se stessi, la propria “testa”, la propria personalità. Per attivare la conversione occorre esercitare in primis la propria autonomia, l’accettazione del proprio io a cui poi corrisponde un determinato orixá, a cui – nel caso dell’abicun – si può essere inconsapevolmente votati sin dal concepimento, o consacrati in vita. Riguardo al primo caso Jorge Amado ricorda in Santa Barbara dei Fulmini:
“ […] se l’abicun compie gli obblighi suoi, con il debito zelo per la grandezza dell’orixá, sarà una persona come le altre, con piaceri e diritti. Se però non riconosce la propria condizione, se la rinnega, non adempie ai precetti, non protegge l’orixá, non gli offre cibi e fatture, diventa un clandestino, soggetto a noie e disturbi di salute, non ha pace, non gode di tranquillità e gioia, ode solo ciò che è male, vede solo ciò che è brutto. Se è maschio, resterà impotente, se è femmina diventerà frigida.”
L’adepto fedele quindi si dovrebbe trovare sempre “in sintonia” con l’“indole” dell’orixá – come la comare Dionísia sa raccontare a Dona Flor: “Una volta Dionísia le [a Dona Flor] aveva detto: “Comare, il suo angelo custode è Oxum ... Com’è Oxum, comare Dionísia?” [chiese Dona Flor] “Ebbene, … è una signora d’aspetto calmo, sta sempre in casa e sembra la mansuetudine in persona. Ma, attenzione, è un’acqua cheta, piena di delicatezze e di languore: di fuori uno stagno d’acque immobili, una raffica di vento internamente.” A volte - è testimoniato sempre in Dona Flor e i suoi due mariti - è uno spirito, un egun – nel nostro caso quello del primo marito defunto - a rivelare al vivente le sue più intime aspirazioni: “Io [Vadinho] sono il marito della povera dona Flor, colui che viene a risvegliare la tua ansia, a mordere il tuo desiderio, nascosti nel fondo del tuo essere, dietro al tuo ritegno. Lui [il secondo marito] è il marito della signora dona Flor, si occupa della tua virtù, del tuo onore, del tuo rispetto umano. Lui è il tuo volto mattutino, io sono la tua notte, l’amante di fronte al quale non hai né possibilità di fuga, né forza. Siamo i tuoi due mariti, i tuoi due volti, il tuo sì e la tua negazione. Per essere felice hai bisogno di tutti e due.”
E qualora questa felicità non è vissuta, ma repressa da circostanze esterne alla volontà personale, o incarcerata nelle profondità del proprio animo, allora è il sacerdote/ la sacerdotessa del candomblé a chiamare in aiuto l’orixá, affinché l’epifania del santo “raddrizzi” la situazione: la giovane Manela, vittima dell’educazione oscurantista, clericale e bigotta della zia Adalgisa: “balla per Oxalá liberandosi dai sensi di colpa e di peccato, dalla pusillanimità, sottomissione, ignomia e finzione, dalla paura delle minacce e delle sgridate, dei colpi in viso, dello scudiscio di cuoio e delle richieste di perdono.”
La liberazione dalle proprie catene psicofisiche, dall’io represso e negato può risultare violenta e traumatica, proprio come nel caso della perfida zia: “Adalgisa ebbe il primo sussulto, il primo volteggio, annunzio del prossimo arrivo dell’orixá, si portò la mano alla bocca, implorò soccorso. … Si affrontarono i contrari in campo aperto, nella pugna immensa …, il fanatismo e la tolleranza, il pregiudizio e la conoscenza, il razzismo e la miscela di sangue, la tirannia e la libertà … più avanti si abbatté Adalgisa, si buttò giù a corpo morto, la testa che le scoppiettava, era il mal di testa che se ne andava per sempre, la respirazione difficile, era il cuore di pietra che sanguinava, roba da non credere!”
Santa Barbara/Yansá aveva deciso di metter il basto alla donna altezzosa e razzista “per insegnarle la tolleranza e l’allegria, le cose buone della vita”. Infatti, Jorge Amado si concede dal mondo di Santa Barbara con la certezza: “E qui si dà per terminata la storia di Adalgisa e Manela, discendenti del castigliano Paco Perez y Perez e della negra Andreza, zia e nipote, figlie ambedue di Yansá. Yansá era venuta a Bahia in visitazione, per aggiustare la loro vita distorta, metter fine alla cattiveria, insegnar loro il bene e il godimento, la gioia di vivere.”
Il sacerdote del culto ha il potere di muovere le divinità le une contro le altre, a prescindere da ogni codice morale, preoccupandosi piuttosto della sopravvivenza degli adepti nella cosiddetta guerra degli Orixás e della loro felicità. È il pae-de-santo Didi, interpellato da un amica di Dona Flor, a chiamare la congregazione dei santi:
“Dall’altro lato della notte di Bahia, un lampo si accese nel cielo, e dentro a quello il babalaô fece il gioco delle conchiglie con la prece di Dionísia, figlia di Oxóssi. Allora la pioggia divenne tempesta, il tuono rimbombò, le luci si spensero, il mare si aderse in furia, e gli orixá, cavalcando lampi e fulmini, vennero ad uno ad uno in risposta al richiamo di Asobá…. Tutti insieme vennero, in formazione serrata, … Tutte le tribù, da sud a nord, contro Exu e il suo egun. Partirono per lo scontro finale.” È interessante notare che la chiamate alle armi dei singoli orixá sottintende anche un significato etnico: il raduno, la convocazione di tutte le tribù ed etnie africane di cui gli orixá sono emanazioni trascendentali.
Altrettanto importante è che la venuta degli orixá scatena anche un sovvertimento della realtà visibile - “Tutto al viceversa, tutto al rovescio, era il tempo del contrario, dell’inimmaginabile, il mezzogiorno della notte, il sole avanti l’alba.” - e, nei racconti di Amado, pure la rivolta dei poveri: “...Fu nei giorni in cui il popolo, cosciente e rabbioso, attaccò la sede del monopolio straniero dell’Energia Elettrica, chiese la nazionalizzazione delle miniere e dei giacimenti di petrolio, mise in fuga la polizia e cantò la Marsigliese senza conoscere il francese. Tutto ebbe inizio in quell’occasione.”
E alla fine la rivoluzione in terra si trasforma nell’avvento di una nuova era cosmica. “Fu allora che una figura attraversò i cieli e, irrompendo per i sentieri più chiusi, vinse la distanza e l’ipocrisia, pensiero libero da ogni costrizione: dona Flor, nuda come Dio l’aveva fatta. Il suo gemito d’amore coprì il grido di morte di Yansá. Nell’ora estrema, quando già Exu rotolava giù dal monte ed un poeta componeva l’epitaffio di Vadinho. Allora si accese un fuoco sulla terra, e il popolo bruciò i tempi della menzogna.” L’amore terreno di Dona Flor trasforma la seconda morte di Vadinho nell’epifania della verità, nell’avvento dell’amore cosmico. Alla distruzione della fattezza umana di Vadinho fa da contraltare l’elevazione del corpo nudo di Dona Flor.
Il Candomblé accetta ogni marginalizzato, sfruttato, derelitto, non chiedendo loro di cambiare, ma di trovare un senso persino al loro vivere precario. Sono i problemi concreti che vanno risolti, grazie all’intervento magico di cui gli Orixás sono i garanti, e questi drammi sono la malattia, la disoccupazione, la povertà, la fame, la violenza che si subisce.
La realtà descritta da Amado - vale a dire una sconcertante miseria in cui vivono lavoratori delle piantagioni, contadini del sertao, una spietata persecuzione e oppressione del popolo da parte dei militari - suggerirebbe una tavolozza plumbea, buia e ferale, eppure il mondo bahiano risulta pieno di energia, di colori e di allegria. Questo ampio ventaglio di colori, il vitalismo in mezzo a miseria, violenza e morte – che lascia comunque il segno nei propositi di suicidio rievocato spesso in relazione al regno di Yemanjá, il mare - è retaggio della componente africana della civiltà brasiliana. Una civiltà votata possibilmente alla promessa di una vita gioiosa:
Don Clemente Nigra ricorda Vadinho: “… Vadinho era così allegro, gli piaceva tanto ridere … Ogni volta che lo vedevo mi rendevo conto che il peggior peccato mortale è la tristezza, il solo che offenda la vita.”, e le negre di Bahia hanno quel qualcosa in più rispetto alle loro coetanee statunitensi, che le rende speciali: “Le [sorelle] Catunda danzavano in omaggio agli orixás, gli allegri dèi negri, venuti dall’Africa e sempre vitali a Bahia. Le negre americane dirigevano la loro supplica agli austeri e distanti dèi dei padroni bianchi, imposti agli schiavi a colpi di frusta. Le une rappresentano il riso sfrenato. Le altre il pianto desolato.”
STRUTTURA, GERARCHIA DEL CANDOMBLÉ
Il Candomblé è organizzato in gruppi gerarchicamente ordinati con responsabilità ben determinate. Il rapporto è rigidamente verticale, ognuno è figlio, ovvero feito, “consacrato”, da un sacerdote del culto chiamato pai o mae-de-santo, autorità massima di ogni gruppo di Candomblé. Ogni appartenente è così contemporaneamente filho di un’autorità terrena che lo ha iniziato e di una divinità che lo “possiede”.
Il rituale di iniziazione permette di entrare a far parte della comunità e, dopo sette anni di anzianità, di diventare sacerdoti. La legge, i limiti, i tabù, le preferenze sono determinati dagli obblighi rituali e dal volere degli dèi. Diventare pai o mae-de-santo non è tuttavia l’aspirazione di ogni iniziato. Occorrono carisma, capacità seduttive e soprattutto un po’ di denaro per aprire un luogo di culto.
Inoltre madri e padri-de-santo devono conoscere a fondo le norme che regolano l’esercizio del Candomblé e la gestione del terreiro. Ne fanno parte tutte le formule incantatorie, fattucchiere, i rituali d’iniziazione, insomma tutte le pratiche magiche che vengono tramandate nella lingua yoruba. Le stesse definizioni di mae/pai-de-santo sono una trasposizione in portoghese di iyalorixá – Yá in yoruba significa madre, perciò si tratta della “madre” dell’orixá – ossia, babalorixá – Babá vuol dire padre.
Mãe Olga de Alaketu,
Gilberto Gil, mãe Stela de Oxóssi
Ma il Candomblé risponde anche e soprattutto a una grande domanda di servizi magico-religiosi richiesti dal popolo brasiliano. I cosiddetti clientes si rivolgono alla mae o al pai-de-santo ( rispettivamente madre e padre di santo) per il jogo de búzios, l’oracolo del Candomblé, e grazie a questa forma di divinazione i problemi vengono risolti purché vengano preparate e disposte le offerte agli Orixás. Il cliente paga per il jogo de búzios, così come per l’ebó, il sacrifio propiziatorio. É pur sempre il Candomblé, una religione di scambio, del do ut des.
Joãozinho da Gomeia, il
babalorixá Jubiabá
Abbiamo già incontrato il babalorixá Jubiabá che cura le singole malattie con erbe e preghiere, quelle psicosomatiche con invocazioni a favore dei clienti. Altri vengono da lui perché traditi dalla moglie, desiderosi di una donna che non li vuole; questi hanno bisogno di grosse stregonerie, di mandingas, di fatture. Un altro stregone corre in aiuto a donne con problemi di concepimento, come Dona Flor. Altri, tra padri e madri di santi, utilizzano i loro poteri, in quel caso, particolari - “queste cose di egun non sono per uno qualsiasi, solo chi usa il bastone di ojé ci si può mettere. …” - , per ridurre nei ranghi gli spiriti: “Il babalao aveva già fatto la chiamata con le conchiglie, e gli orixá avevano risposto. Per garantirle la libertà e liberala dal malocchio, dalle malattie, dalle minacce dell’egun irrequieto che tentava di attirarla nella sua morte, dona Flor doveva compiere un rito di rilievo, non un semplice servizio, non un ebó qualsiasi.”
Tutti, sciamane e sciamani, sono comunque in rapporto confidenziale con gli orixá, per così dire “a tu per tu”. Dopo le scorribande attuate a Bahia a seguito della sua discesa dalla nave, santa Barbara dei Fulmini, alias Yansá/Oyá: “... si distende ai piedi della Mae de santo Menininha do Gantois, madre di ogni bontà e saggezza, regina delle acque tranquille, immensa e maestosa. […] La iyalorixá le toccò la fronte e, prendendola per le spalle nude, la sollevò e se la strinse al petto.”
Mãe Menininha do Gantois
La casa ed il luogo dei riti Candomblé sono le casas, roças o terreiros, dove si incontrano gli adepti e dove si trova la casa dell’orixá venerato, il quarto de santo, peji o ilê. I terreiros de santo erano più di 600 negli anni 60’ a Bahia, ed erano divise in quattro gruppi principali, che riferiscono alle rispettive “nazioni”: candomblé gêge-nagô che comprendono i candomblé di origine ketu, gêge e ijexá, candomblé congo, candomblé angola, candomblé di caboclo. Ogni casa-di-santo ha un suo proprio calendario, un proprio rituale, una condizione religiosa specifica.
Esercitare una vera e propria professione per alcuni può costituire una buona prospettiva di ascesa sociale ed economica, soprattutto per chi provenga dagli strati bassi della popolazione. Ne è un esempio l’eminenza grigia e colui che diede il titolo al romanzo Jubiabá. Antonio Balduino, il suo giovane protagonista, lo incontra all’inizio del suo percorso di formazione e crescita, non sapendo cosa pensare di lui, ma era certo che “lo rispettava in modo comunque diverso da come rispettava il prete.” Jubiabá era il patriarca della collina del Morro do Capa Negro, il custode, protettore della nigrizia.
Entrare a far parte di un gruppo di Candomblé costituisce una vera e propria rottura rispetto al passato, tanto dal punto di vista della vita privata quanto sul piano sociale e culturale. Compiere l’iniziazione e diventare filho-de-santo significa mutare drasticamente valori e visione del mondo, adottare nuovi modelli di comportamento.
Tra gli altri motivi di attrazione che esercita il Candomblé possiamo annoverare la disinvoltura con la quale i brasiliani si relazionano al misticismo in generale e alla trance in particolare. Quest’ultimo fenomeno viene vissuto con una naturalezza sconosciuta al resto degli occidentali. La trance di possessione, osservabile nel Candomblé si misura con il movimento, ovvero la danza, con il rumore dato dal battito dei tamburi rituali; è svolta in presenza di varie persone, molto spesso un folto pubblico. Il grado di teatralità raggiunto dal corpo in trance indica un “movimento addomesticato” anziché uno scatenamento selvaggio. In altri termini si tratta di un fenomeno controllato culturalmente – cui il filho-de-santo deve essere ben preparato – e non una semplice e scomposta visita di un’entità sregolata. La trance arriva nel momento fatidico. Anche se tutti i presenti, iniziati e non, sanno che prima o poi accadrà, è l’Orixá a scegliere il momento propizio per la propria epifania, quel suo voler abbandonare temporaneamente l’Orum, il mondo soprannaturale, per scendere a far visita al proprio fedele. Prima il sudore, l’ansia, la sofferenza, il roteare degli occhi e della testa. In chi assiste si può palpare la tensione. Portato via, vezzeggiato, il fedele “che non è più lui” scompare al di là della porta del terreiro dove si sta svolgendo la cerimonia. A riapparire, dopo pochi minuti è l’Orixá in persona, paramentado, ovvero inconfondibilmente “addobbato”. Amado descrive l’esperienza estatica di Manela – una iawô, vale a dire una neofita - in questi termini:
Una giovane inizianda,
detta Iawô
“In strada la negra [Yansá/Oyá], vestita di cenci color vino, bella come lei sola, sorrise a Manela, le mise in mano l’eiru fatto con la criniera di cavallo, e sparì. … Manela ebbe appena il tempo di sorridere al suo ragazzo, riconoscere zio Danilo, intravedere zia Gildete; quando tentò di chiamarli, di correre incontro alla sua gente, ormai la bocca e i piedi non le appartenevano più: Yansá l’aveva invasa e la cavalcava. Si avviò danzando per il marciapiede del convento, scese verso il Largo, se ne andò. Mastro Pastinha non ci vedeva, ma indovinava, alzò le mani, curvò la testa come comanda l’obbligo rituale, salutò l’orixá: “Eparrei, Oyá!” Il popolo in coro lo imitò, le palme delle mani all’altezza del viso, rivolte all’orixá: Eparrei, Yansá, madre della tempesta, Eparrei, Oyá!
L’“Orixá” prende
possesso dell'adepta che cade stremata dopo la "danza"
… Danzando senza arrestarsi, scortata da Oxalá, Oyá [nel corpo di Manela] prese la strada, si diresse verso il Candomblé del Gantois, dove madre Menininha l’aspettava per potere, allora e solo allora, brandire il rasoio e salpare l’ancora della barca [Manela viene consacrata al suo orixá: le viene rasata la testa; barca di iawô]. La turba del popolo l’accompagnò fino al Largo de Pulqueria. Oyà Yansá danzava per le strade della città di Bahia. […] Nel peji del Gantois, nel segreto del camerino delle iniziande, Yansá era venuta a montare Manela, suo cavallo confermato. Oyá la lasciava che riposava, stesa sulla stuoia, la testa rasata, il volto dipinto di azzurro e di bianco, alle caviglie gli xaoró della soggezione.
Una Iawô
Yansá sorrise, intenerita e solo allora venne ad annunciarsi sull’Avendida, nel chiarore dei lampi, nel grido di guerra, nei fulmini. […] Il giorno dell’orunko [giorno della dichiarazione del nome dell’orixá all’iniziata], Yansá, nel recinto sacro del Gantois superaffollato, saltò finalmente, si levò nell’aria tutta in color rubino e uve nere, e annunciò per la prima e ultima volta il nome della nuova nata, l’Oyá di Manela. L’Oxalá di Gildete, maestoso, La Yansá di Adalgisa, possente, l’accompagnarono nel percorso della rivelazione. Il nome si ode e si dimentica, giammai si ripete, nessuno lo ritiene nella memoria, solo, la madre e la figlia, la iyá e la yáwo, ne conoscono la pronunzia. La domenica seguente al giorno dell’orunko vi fu la cerimonia del pana, l’asta delle yawo, mercato di schiave: lo xarao alle caviglie, al collo il kele dell’orixá. Manela fu comprata a buon prezzo da Danilo, il suo pai pequeno [...] per la seconda volta assumersi la responsabilità di lei.”
Festa nel terreiro
È la festa il punto di contatto tra iniziati e non. Esemplare in questo senso risulta la descrizione della Macumba data da Jorge Amado in Jubiabá (p. 91 sgg.). Tutti dimostrano impazienza e al contempo una fortissima inquietudine; è un passaggio fondamentale, un punto di non ritorno. Di solito si arriva al terreiro dopo un lungo e disagevole viaggio, e questo accresce il clima di soggezione del neofita. L’atmosfera che accoglie il potenziale nuovo membro del gruppo è però rilassata e gioiosa, i filhos-de-santo sorridenti, le vesti colorate, perfettamente pulite, profumate di fresco: la comunità è al corrente non soltanto della visita, ma anche del desiderio e della curiosità di colui o colei che presto entrerà a farne parte. Il luogo dove la festa si sta per svolgere – il Barracao – è immerso in un intenso odore di foglie di pitanga, gli atabaques cominciano a suonare, inizia la nenia, ora sommessa ora elettrizzante, delle cantiche in yoruba, che ancora non si è in grado di identificare o associare ai vari Orixás. Iniziano a manifestarsi le divinità. Il confine, la linea d’ombra è stata superata.
Il Jogo de buzios (conchiglie), la divinazione nel Candomblé
Segue una conversazione con il pai-de-santo e quindi la seduta al jogo de búzios, durante la quale viene svelato l’accostamento fedele-Orixá e anche il volere di quest’ultimo in merito all’iniziazione. É così che si diventa abia, letteralmente “quello che ancora non è nato”, che non è stato iniziato.
Si arriva alla religione per amore, per curiosità, per arricchimento culturale e persino per via del dolore. Un dolore che si crede di poter eliminare grazie al culto degli Orixás, al punto da superare il periodo d’iniziazione, che costituisce esperienza profonda e marcante, durante la quale è necessario spogliarsi completamente di preconcetti e timori per mettersi nelle condizioni di poter rinascere. Appartenere al Candomblé significa essere in intimità con gli dèi, non solo nei momenti della possessione.
In genere, la religione del Candomblé, è piuttosto impegnativa e non soltanto per la devozione che richiedono le divinità: si lavora molto, le relazioni tra i membri sono molto intense. C’è chi ha paragonato quest’appartenenza a un’interminabile seduta di psicoanalisi. All’interno della familia, conta il principio di autorità dato dall’anzianità di iniziazione e non dall’età anagrafica. Vi è poi un ruolo di particolare prestigio, che si tende ad assegnare a persone in vista nella società globale, che è quello di oga. In origine tale ruolo – ricoperto tra gli altri da Jorge Amado e Gilberto Gil – aveva come fine la difesa del terreiro dalla persecuzione compiuta dalla polizia; la presenza di una personalità ben vista in società garantiva l’immunità.
ORIXÁS
Gli Orixás sono i veri protagonisti del culto, detentori del potere di governare il mondo, e tutti gli elementi naturali – il fulmine, l’acqua, la fertilità - nonché di presiedere a tutte le attività umane.
Allontanandosi – certo, relativamente – dal mondo naturale, gli dèi hanno guadagnato sempre più la loro forma antropomorfa. I miti raccontano di dèi che pensano e agiscono come gli umani, con gli stessi istinti, sentimenti, comportamenti ed emozioni. Diventano, questi dèi così vicini a noi, difensori di determinati aspetti della vita sociale, punti di riferimento imprescindibile, aiuto, guida e conforto per tutti.
Oxalá, Omolu, Oxumaré,
Xangô
Secondo i seguaci del Candomblé, ogni essere umano discende da un Orixá specifico. Ogni filho-de-santo deve mantenere con il proprio dio un rapporto di assoluta fedeltà, condividendone preferenze, tabù, persino caratteristiche fisiche.
In una società fortemente diseguale, in un contesto nel quale molti seguaci della religione del Candomblé sono afro-discendenti e poveri, e quindi discriminati, cercare l'Orixá, rappresenta un espediente ricorrente per tentare di superare difficoltà. E per riuscirci occorre essere forti, determinati, combattivi proprio come l'Orixá.
È sempre Jorge Amado a dare una dettagliata panoramica dell’Olimpo afrobrasiliano di Bahia nel capitolo Gli orixá di Carybé - noto artista, amico del Nostro - del libro Bahia, le strade, le piazze:
Egun significa spirito, anima, e gli adepti di questo culto, alla morte si trasformano in egun attraverso un complicato procedimento iniziatico.
Exu mangia qualsiasi cibo che la bocca accetti, beve cachaça, è un cavaliere errante e un ragazzino bricconcello. Gli piace la cagnara, signore delle strade, messaggero degli dèi, corriere degli orixá, un monellaccio. Per tutto questo è stato sincretizzato col diavolo in persona: in realtà non è che un orixá vagabondo, amico di una buona scazzottata, di un po’ di trambusto, ma in fondo è un gran buon diavolo. … Ogni cerimonia di terreiro comincia col padê di Exu (offerta di bevande e cibi ad Exu), per evitare che lui venga a guastare la festa. Il giorno di Exu è il lunedì.
Ogum è vestito tutto di ferro, il dio della guerra. Il suo giorno è il martedì. Nel sincretismo afro-cattolico, Ogum è Sant’Antonio.
Oxóssi, re di Ketu, è sincronizzato con San Giorgio, uccisore del drago. Dio della caccia, delle umide foreste, con il suo ofá (arco e freccia) abbatte le fiere tutte, è un cacciatore invincibile.
Omolu o Obaluaiê, è il più temibile degli orixá, poiché comanda le malattie e la salute, nelle sue mani infermità e cura. Eccolo, sul terreiro, rivestito di paglia, volto e corpo occulti per non mostrare le piaghe della lebbra, e del vaiolo nero, tormentato da pruriti, convulsioni, storpio e contorto, San Lazzaro e San Rocco. Il suo giorno è lunedì. Distribuisce le malattie e la salute. Quando attraversa danzando il terreiro, raccoglie al suo passaggio i malanni dei suoi figli, se li porta via, lascia il loro corpo libero e sano.
Ossain è la divinità delle erbe, quelle medicinali e liturgiche, è il signore della foresta. Senza di lui nessuna cerimonia è possibile. È uno degli orixá più importanti.
Xangô è uno degli orixá più potenti, divinità del fulmine, del fuoco, del temporale. Fu il terzo re di Oyo. La sua danza è possente. È stato marito di tre mogli: Obá, Oxum e Yansã. Esistono dodici forme di Xangó, egli è uno degli orixá più popolari.
Oxumaré è l’arcobaleno, l’orixá Bessem dei gêge, il serpente, il cui simbolo è un serpente di ferro. Nel sincretismo afro-cattolico s’identifica con San Bartolomeo. Secondo la leggenda fu incaricato di trasportare acqua al palazzo di fuoco di Xangó. È maschio e femmina ad un tempo.
Oxum è la dea del fascino, dell’eleganza, del fasto, della ricchezza, della beltà, donna fatale. Fatale come nessun’altra. Dea del fiume Oshun, è stata la seconda moglie di Xangó. Civettuola, vanitosa, astuta, ingannò Obá, sua rivale nell’alcova del marito, inducendola a tagliarsi un orecchio. Prima che di Xangó fu moglie di Oxóssi. Per evitare di seguire in guerra Xangó, gli diede in moglie come terza sposa la sua sorella più giovane, Yansã. La sua danza sensuale è un invito all’amore.
Yansã è nota anche col nome di Oyá, e sotto forma di Oyá Bali comanda agli egun, signora dei morti. È l’orixá dei venti e delle tempeste. Intrepida guerriera, accompagna suo marito Xangô alla guerra. È stat la sua terza moglie. Divinità del fiume Niger, autoritaria, sensuale, inflessibile. Nel sincretismo baiano s’identifica con Santa Barbara.
Euá, orixá delle acque, divinità del fiume Iewá, in Africa, santa guerriera, intrepida. È uno degli orixá più belli. Unisce il coraggio e la decisione alla mansueta dolcezza delle fonti, poiché in esse abita questo spirito; il mormorio dell’acqua corrente è la sua voce.
Yemanjá, Signora delle acque, sposa di Oxalá, madre di tutti gli orixá. Nel sincretismo s’identifica con l’Immacolata Concezione. È nota anche sotto i nomi di Dona Janaína, Inaê, Maria, Principessa di Aioká, o Yá. In onore suo si realizzano grandi feste di pescatori, equipaggi di pescherecci e marittimi alla Diga, in Itaparica, al Rio Vermelho (2 febbraio). Tutto il mare di Bahia appartiene a Yemanjá.
Oxolufá – Oxalá, il più grande di tutti gli orixá, si distingue in due persone. Da vecchio è Oxolufá, da giovane Oxaguian. Si identifica con Nostro Signore del Bonfim, [Gesù Cristo] e le feste del Bonfim sono feste di Oxalá. Suo giorno della settimana è il venerdì. Fu re d’Ifon ed è padre di tutti gli orixá. È l’orixá della procreazione.
Onilé. Così come Yemanjá è signora delle acque, Onilé è signore della terra. Passa il suo tempo sul suo cavallo, non lo lascia mai. Racchiuso in un sacco si porta il mondo sulle spalle.
Obá, divinità del fiume Obá, moglie di Xangó. Divinità guerriera porta lancia e scudo. Nella danza si batte con Oxum, che la indusse a tagliarsi un orecchio per servirlo col cibo a Xangó e così conservare il suo amore. Il risultato della manovra fu disastroso: Obá fu ripudiato da Xangó.
Gli Ibêjes, i mabaças, i “gemelli” sono i SS. Cosma e Damiano, i santi fanciulli, oggetto di particolare devozione a Bahia. I caruru di Cosma e Damiano sono celebri. Quale casa veramente baiana che non offre un caruru annuale agli Ibêjes?
JORGE AMADO, IL CANDOMBLÉ E LA SESSUALITÁ
L’atto sessuale, insegnano gli Orixás, non è oltraggioso ma fecondo, in ogni senso: laddove genera (anche) la vita, crea cultura, rapporto, relazione. Ecco che il seno, le natiche, il movimento femminile, nonché la muscolatura e la potenza maschile generano, grazie agli Orixás, significati mai stati tanto religiosi. E i filhos e le filhas-de-santo parlano senza tabù di questi argomenti, orgogliosi, tutti, delle proprie formosità, non considerate scabrose, ma semplicemente seducenti, ispirate dalle rispettive divinità.
La comunità meticcia che abita il Candomblé trasmette alla società brasiliana che sta al di fuori del terreiro memorie e costruzioni che riguardano anche il corpo e le sue dinamiche, il sesso e le percezioni che lo riguardano, il senso stesso dell’atto riproduttivo, privandolo di ogni tabù e sensazione di peccato propri del Cattolicesimo.
Vi sono certo ragioni di ordine storico riguardo alla tolleranza sessuale nel Candomblé (pure nei confronti degli omosessuali), dal momento che la schiavitù ha determinato il disgregamento della struttura originaria della famiglia africana, con un ribaltamento dei ruoli sociali: l’uomo non era più il capofamiglia e la donna si trovava costretta a badare a se stessa. Gli schiavi e i loro discendenti si trasformarono nel gruppo meno socializzato tra le società possibili. Il più vistoso cambiamento di comportamento portò a una espressione sregolata e assolutamente libera della pulsione sessuale. La possibilità di ascesa sociale che favorirono le donne (domestiche, balie) portò a una perdita del potere di dominazione dell’uomo nero.
Quando il Candomblé, attorno alla metà dell’800, si afferma in Brasile, è proprio questa insolita famiglia, detta matrifocale, con la presenza solo saltuaria degli uomini, a occupare i terreiros. Sul piano pratico, poi, è evidente che la dedizione e la responsabilità richieste alle maes-de-santo mal, o per nulla, si concilino con le aspettative di un marito. Questo vale ovviamente anche per i pais-di-santo. L’Orixá ha sempre la priorità sul coniuge.
E poi sono da considerare le caratteristiche degli Orixás: bisessuali, androgini, violenti, disinvoltamente liberi.
Detentori di un legame speciale ed ambiguo con le madri ancestrali, responsabili della fecondità dei campi, della riproduzione degli uomini: mentre Odoya (Yemanjá) sublima le caratteristiche della fecondità e della maternità, Pomba Gira incarna scandalosamente aspetti più liberi della sessualità femminile.
Yemanjá ... e Pomba Gira
Lo stesso atto con cui l’orixá si impossessa del suo consacrato o della sua consacrata - definito “cavalcare” il figlio o la figlia del santo – rievoca in qualche modo la copula: “… Yansá era venuta a montare Manela, suo cavallo confermato … a mettere il basto alla cavalla [recalcitrante] Adalgisa”.
Il Candomblé permette così a ogni individuo di valorizzare indifferentemente caratteristiche maschili oppure femminili della propria personalità, a seconda delle situazioni o dei gusti, a prescindere dal proprio sesso biologico.
Anche i romanzi di Amado ricalcano per certi versi questa “libertà” con cui i protagonisti parlano, attuano la propria vita sessuale. Egli rievoca “gli indimenticabili furori uterini di Célia Maria Pia dos Wanderleys e Prata”, la fisionomia traboccante della dea Oyá - “… al ritmo della respirazione, le tette libere tremolavano e il deretano superbo traboccava fuori dai limiti piuttosto ampi del letto improvvisato, un deretano da far impazzire qualunque mortale.” - l’impressione osé – a dir il vero, un po’ blasfema - suscitata dall’apparizione di una santa cattolica: “Santa Maria Egiziaca, fanciulletta civettuola, che esercitava i suoi talenti in un bordello, senz’alcun velo allegorico, nuda come Dio l’aveva fatta.” , sino ad arrivare alla descrizione maliziosamente minuziosa dell'atto di igiene intima a cui Adalgisa, novella sposa, si dedica prima del fatidico incontro con lo sposo.
Amado contrappone alla “filosofia” del candomblé, propositiva e positiva nei confronti degli impulsi sessuali, la dottrina manichea (neoplatonica) del cristianesimo – ma pure di certe teorie indù - sulla netta divisione tra spirito e carne proposta da un opuscolo di propaganda Yoga: “ … che Dona Flor aveva letto e riletto, le aveva già spiegato che si trattava d’un caso chiarissimo di “battaglia cruciale fra la sozza materia e il puro spirito”, in atto nel suo intimo, una cosa paurosa.”
All’esaltazione del erotismo femminile ad ogni capoverso dei romanzi amadiani fa da contraltare la descrizione della disinibizione sessuale anche dei maschi. È comunque difficile distinguere chiaramente il vitalismo sessuale mascolino dal manifestarvisi in modo implicito di un latente machismo, che non è per forza retaggio di un patriarcato di stampo europeo, ma traspare anche nei rapporti tra i sessi in ambito africano:
“Dona Flor sapeva che era la pura verità: l’orgoglio che ardeva nel petto del marito [Vadinho] formava intorno a lui una specie di aureola, uno splendore. Non propriamente santo, ma di uomo maschio, in gamba. … Era stato lui a svegliarla alla vita, trasformando la ragazzina ingenua della Ladeira do Alvo in un fuoco dalle fiamme alte.” Anche i mariti più inibiti dalla tirannia muliebre godono alla fine, una volta ristabilito il “giusto” ordine del mondo per intervento dei santi, del “ben meritato” riscatto morale e fisico:
“… quando Danilo si svegliò, si alzò con un ruggito, si buttò fuori dal letto, il naturale in resta, potente e aggressivo, un ariete, Così arrogante che l’angelo custode di Adalgisa vacillò sulle ali esitanti e, non essendoci dubbi ormai su ciò che sarebbe accaduto, se la svignò per mai più ritornare.”
Insomma, siamo all’apoteosi della potenza e “consapevolezza” ormonale virile. E guai, se questa non emerga, o sembri naufragare in una delle tante avventure amorose prematrimoniali del Dottor Teodoro, secondo marito di Dona Flor. Un evidente passo falso, di cui la notizia ha fatto comunque il giro di bettole e postriboli bahiani: “… Quando mai si è visto un uomo maggiorenne, dottore e tutto, rimanere spaventato davanti a una donna come un pulzello; c’è mancato poco che chiamasse aiuto.”
Gli impulsi sessuali, la pratica del tanto decantato libertinaggio maschile disconoscono comunque spesso, come testimoniato in Jubiabá, alle donne, e non di rado a ragazzine (nel nostro caso una dodicenne, fresca orfana di madre) qualsiasi dignità e libertà di scelta: portarsi in casa la ragazza “è la legge delle piantagioni di tabacco. La donna è un animale raro, e quando una rimane senza il suo uomo, trova subito un altro che se la porta in casa.”
E l’indulgenza di fronte all’irruenza degli impulsi sessuali, alla pre-potenza maschile, narcisisticamente esaltati, si strozza, nel caso di scelte sessuali non conformi, in una esplicita condanna. A proposito dell’omosessualità, beninteso femminile delle “Honolulu Sisters” Amado ci racconta: “[Dona Flor] voleva ascoltare il canto puro e doloroso senza turbare la sua bellezza con la tara delle due donne, con la loro condizione morbosa, la loro maledizione. Musica di sangue sparso, alito bruciante di fuoco. … il loro amore di maledizione.”