Grazia Deledda

"Se io conto qualcosa nella letteratura italiana, lo devo tutto alla mia isola santa"

Creato da:
Alice
Sei in: Articoli
Ultimo aggiornamento: 02/04/2024

Grazia Maria Cosima Damiana Deledda, conosciuta semplicemente come Grazia Deledda, nasce a Nuoro il 28 settembre 1871. La data riportata nell’atto del registro di Stato Civile è il 28 settembre, però all’epoca c’era l’usanza di registrare i bambini diversi giorni dopo la nascita. A tal proposito, l’autrice in parecchie lettere afferma di essere nata il 27 settembre. Quinta di sette figli, Grazia nasce in una famiglia benestante. Il padre è imprenditore ed appassionato di letteratura, perciò fonda una tipografia e comincia a stampare una rivista. La madre, invece, è una donna di severi costumi e dedita alla casa, tanto che educa lei stessa la figlia. Successivamente, la bambina comincia la scuola elementare fino alla classe quarta, per poi essere seguita privatamente e infine proseguire la sua formazione da autodidatta. Comincia a collaborare con alcune riviste, sia sarde che romane, che successivamente pubblicheranno anche dei suoi racconti e saggi. Gli anni Novanta sono anni veramente duri per la famiglia Deledda: il padre muore per una una crisi cardiaca il 5 novembre 1892 e la famiglia deve affrontare grosse difficoltà economiche. Nel 1890 comincia a scrivere per una rivista con lo pseudonimo di Ilia de Saint Ismail sul quotidiano di Cagliari, e collabora anche con riviste sarde e continentali come La Sardegna, Piccola rivista e Nuova Antologia. Il 22 ottobre 1899 si trasferisce a Cagliari, dove conosce Palmiro Madesani, un funzionario del Ministero delle finanze, che sposa a Nuoro due mesi dopo. Dopo il matrimonio, il marito lascia il lavoro per aiutare la moglie come agente letterario. Il loro è un rapporto paritario, fatto di collaborazione e sostegno reciproco. Dal matrimonio nascono due figli, Franz e Sardus. Nel marzo 1909, Grazia Deledda compare nelle liste per il collegio di Nuoro della Camera per il Partito Radicale Italiano. Si tratta della prima candidatura per una donna in un periodo storico dove esse non possono ancora votare. Deledda ottiene 34 voti, di cui 31 contestati e vince l’avvocato Are, la cui elezione però deve essere ripetuta. Il 10 dicembre 1927 le viene conferito il premio Nobel per la letteratura 1926, il che la rende al momento unica donna italiana a cui è stato assegnato, vincendo il duello contro Matilde Serao. Si deve precisare che Grazia Deledda è la seconda donna in assoluto nella storia, dopo la svedese Selma Lagerlöf, a ricevere il premio in questa disciplina.
La vita della Deledda si conclude nel 1936 a causa di un tumore al seno, del quale soffriva da tempo. Le spoglie trovano sepoltura nel cimitero del Verano a Roma, dove ci rimangono fino al 1959 quando i famigliari chiedono il trasferimento nel paese natale. Lascia incompiuta la sua ultima opera, autobiografica, che apparirà sulla rivista Nuova Antologia, a cura di Antonio Baldini col titolo Cosima.


I suoi romanzi sono principalmente ambientati nella Sardegna. I primi lavori parlano in particolare del suo paese natale, una società piccola e chiusa in cui le donne sono relegate al ruolo di “figli e casa, casa e figli”. Essa si fa voce di quelle nuove generazioni, le quali credono in una crisi epocale del mondo patriarcale, dove le stesse si sentono represse. La Deledda fa emergere alcune problematiche della società della Sardegna ma senza tradire le sue radici identitarie. Le sue opere, però le procurano le antipatie degli abitanti di Nuoro, che non vedono di buon occhio la descrizione della propria società.
Essendo le situazioni quotidiane reali e soprattutto quelle più drammatiche le principali tematiche dei suoi lavori, il nome della Deledda viene affiancato spesso da alcuni studiosi al movimento letterario del Verismo, definendola addirittura come l’erede di Verga. Non tutti gli studiosi e letterati, però, sono d’accordo su questo punto. L’opinione si divide perché alcuni affermano che la produzione della Deledda sia molto influenzata dalle grandi letterature europee e soprattutto da quella russa. Quindi La Sardegna, descritta dalla Deledda, risente dell’influsso della produzione russa e viene raccontata con toni fiabeschi e poco aderenti alla realtà, allontanandosi dal verismo. Le storie, inoltre, hanno sempre un fondo autobiografico, che impedisce di avere un distacco nella narrazione, che è invece l’elemento caratterizzante della narrativa verista. In favore del verismo, nella sua produzione si trovano i temi del fato e della famiglia popolare caduta in disgrazia, rintracciabili specialmente nel romanzo verista per eccellenza I Malavoglia di Giovanni Verga.
Forti vicende d’amore, di dolore e di morte sulle quali aleggia il senso del peccato, della colpa e la coscienza di un’inevitabile fatalità sono i punti della sua produzione. Si trova, inoltre, la pìetas, intesa come partecipazione compassionevole verso tutto ciò che è mortale, come compressione della fragilità e delle debolezze umane, come sentimento misericordioso che induce comunque al perdono e alla riabilitazione di una comunità di peccatori con un proprio destino sulle spalle.

Per la Deledda esiste una distanza tra la cultura e la civiltà locali e quelle cosiddette nazionalie soprattutto un intenso rapporto tra civiltà-cultura-lingua. In una sua lettera l’autrice scrive: “io scrivo ancora male in italiano, ma anche perché ero abituata alla lingua sarda che è per se stessa una lingua diversa dall’italiana. Cerco sempre di migliorare il mio stile.” Quando studiò privatamente in giovane età, il professor Pietro Ganga le impartì lezioni base di italiano, latino e francese, per cui essa non considera prettamente sua la lingua italiana, ma è una lingua che deve conquistarsi piano piano. Sempre dal suo epistolario, si deduce una sorta di noia dell’autrice verso quei manuali di lingua italiana che dovrebbero insegnarle lo stile e le dovrebbero servire nella formazione della sua cultura letteraria da autodidatta, ma l’altro lato emerge una forte ammirazione per i maestri narratori attraverso la lettura dei loro romanzi. Il filologo Nicola Tanda è convinto che l’autrice si sia trovata ad un bivio: scrivere in italiano come se quella lingua fosse la sua e non fosse assolutamente estranea alla popolazione di cui parla, oppure rappresentare nella maniera più veritiera possibile quella stessa popolazione. La Deledda mischia la lingua italiana a imprecazioni, ironie antifrastiche, risposte in rima, tutte cose che la prosa italiana, ancora troppo accademica, si apprestava ad inglobare in sè stessa per ricavarne nuova linfa in direzione del plurilinguismo o del dialetto. Per concludere, l’autrice pur essendo sardofona, ha deciso di scrivere in lingua italiana, in risposta al clima di italianizzazione e omogeneizzazione culturale per raggiungere il più ampio mercato, ma non allontanandosi completamente dai termini prettamente sardi.
La sua scrittura si adatta molto alla narrazione cinematografica, infatti nella prima decade del XX secolo molti furono i film tratti dai sui romanzi.


Numerosi sono i romanzi che l’autrice ha scritto nella sua carriera, ma vorrei porre l’attenzione sull'opera più nota: ovvero Canne al vento. Essa viene pubblicata nel 1913, prima in più puntate poi riunita in un unico volume. Il romanzo si snoda su due piani temporali: il primo è la storia della famiglia Pintor, dove Lia, figlia di Don Zame, uomo suberbo ed autoritario, scappa e si imbarca per Civitavecchia. Qui conosce un uomo che sposa e da cui ha un figlio di nome Giacinto. Nel frattempo, il padre decide di inseguire la figlia, ma viene trovato morto poco fuori dal paese in cui la famiglia vive. Il secondo piano temporale è il ritorno di Giacinto, orfano di entrambi i genitori, alla casa originaria della madre. Il ragazzo trova le sorelle superstiti della madre che cercano di sopravvivere come meglio possono. L’arrivo del giovane viene visto come una speranza di rinascita dell’intera casata. Una famiglia ancorata alla tradizione e fortemente patriarcale, però non immune ai rapidi mutamenti della modernità della quotidianità. Inoltre, è presente una punto fondamentale della narrativa deleddiana: l’ineluttabilità del fato che governa il destino degli uomini e gli uomini stessi, schiavi della loro natura e dei loro sentimenti.

To top

Ricerca

Visualizza

Eventi / Avvisi

Bibliografie

Percorsi tematici

Ricerca semplice

Visualizza

Ricerca per area

Visualizza

Ricerca strutturata

Visualizza