Vite minuscole, di Pierre Michon

Vita, morte e resurrezione di uomini e di parole

Creato da:
Andras
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Ultimo aggiornamento: 19/04/2024
Il verbo che si fa logos, la parola che si fa carne e la carne che attraverso la parola si fa uomo – la parola emes (verità) sulla fronte del Golem – e infine, da uomo si fa vita. Una vita che – e sembra chiudersi il cerchio – si riscatta, si riscuote dal vuoto, dall’oblio niente meno che attraverso la parola, per via della scrittura, per merito dello scrittore. Le Vite, siano esse di imperatori, le agiografie di santi, le Vidas dei trovatori, investono la figura stessa dello scrittore di una missione difficilissima, gravosa e moralmente delicata: quella di traghettare i morti alla giusta memoria, alla veritiera rimembranza, al pietoso ricordo. Dell’innalzamento agli altari della eterna vita manu scriptorum sogliono ornarsi soltanto uomini e donne munite di celebrità, mentre i comuni mortali spariscono per decreto universale, almeno dopo 2 o 3 generazioni, nei buchi neri dell’oblio.
Ebbene, Pierre Michon si è liberato con le Vite minuscole dalla tirannide dell’oblio , si è ribellato alla legge delle celebrità. Le 8 biographèmes, biografie di persone “minuscole” senza voce, conosciute nel corso della sua infanzia, incontrate o ritrovate più tardi durante la sua vita da errante vogliono essere rivalsa, riscatto di questi esseri sconosciuti e senza storia; attraverso le loro vite, nel cammino a ritroso, l’autore stesso si racconta, ricostruisce l’immagine di sé, si riscatta egli stesso e si interroga sul sua vocazione di scrittore e sul significato del suo lavoro.
In André Dufourneau, un bambino affidato alle cure dei bisnonni dello scrittore, che abbandona il focolare per cercare fortuna in Africa, confluiscono le biografie dell’autore con quelle del personaggio narrato. Il viaggio di Dufourneau si riverbera nelle prime esperienze del lettore infante e nelle scelte letterarie dello scrittore ormai adulto; l’Africa e lo spazio vitale di chi esplora le memorie sono ambedue perigliosi, incerti e forieri di esiti esiziali. Anche nel caso di Antoine Peluchet, un giovane antenato di Michon, insorto a figura celebre nella mitopoiesi parentale, fuggito di casa senza lasciare tracce, il destino dello scrittore s’intreccia con quel familiare di altri tempi: “ le nostre età non hanno lasciato traccia, la nostra opera non esiste”, constata desolatamente l’autore. Le prime due vite sono segnate dalla ferita dell’abbandono, ma quanto profondamente abbia inciso sulla carne e sulla mente di Michon l’atto di lasciare il vuoto viene sottolineato dal terzo racconto, quello dei suoi nonni paterni Eugène e Clara. Due presenze care alla memoria dello scrittore, anche se ambiguamente percepite per il fatto che la loro presenza doveva colmare l’assenza del proprio padre, sparito senza lasciare traccia: “il demone dell’Assenza aveva la meglio, negandomi insieme a molti altri affetti, quello di una vecchia [Clara] cui volevo bene”.
Con le successive 5 vite il rapporto tra la VITA e la vocazione di SCRITTORE si fa sempre più serrato. Nelle vicissitudini dei due fratelli Bakroot - reminiscenze del periodo collegiale dell’autore, tempo in cui il giovane ha cominciato ad “abitare il cuore del linguaggio” – si stringe il nodo di vite vissute nel passato remoto, o meglio mai vissute, se non attraverso la sola penna del letterato. Questo nodo non è stato mai sciolto da uno dei fratelli, vale a dire Roland, incapace di affrontare il mondo, e lo opponeva all’altro, Rémi, autentico viveur, impavido domatore di donne, di avventure e della vita, tanto – verrebbe a dire – da morire prematuramente. Nella Vita di Père Foucault l’assenza della parola, il vuoto di lettere si fa esplicito. Il vecchio “abitante” di un ospedale periferico del Creuze – temporanea dimora del nostro a seguito di una rissa -, ammalato di un cancro alla gola, preferisce il mutismo della morte alla vergogna di confessare ai concittadini (dell’ospedale dipartimentale) il suo analfabetismo. Père Foucault incontra il sentimento fraterno dello scrittore in quanto quest’ultimo riteneva, pure lui, circondato da un universo di sapienti e parolai, di non sapere nulla, e voleva, per questo, morire.
Il racconto più lungo, sulla Vita di Georges Bandy, è in realtà la disperata, allucinata e presuntuosa ricerca da parte dell’autore delle parole giuste, quando, per puro caso, gli si materializza davanti il ricordo d’infanzia, l’apparizione sfuggente e sfumata del padre Bandy, parroco per alcuni anni del suo villaggio. Un uomo affascinante, tombeur des femmes, bello e soprattutto domatore, giocoliere di parole, acclamatore di prediche ed omelie di una straordinaria potenza oratoria che suscitava fortissime “emozioni nella carne delle donne e nei cuori dei bambini”. La presunzione dell’abbé, per cui “la Grazia possa toccare un bello orante risalendo fino in cielo attraverso la catena delle calzanti parole intrecciate” subisce un amaro contraccolpo, che, nel suo messaggio divino, investe indirettamente anche lo scrittore. Quest’ultimo lo ritrova, decaduto e alcolizzato, in un centro di malati psichiatrici; senza l’approvazione del Gran Lettore, il padre “si rivolgeva ormai ai più diseredati, quelli che qualsiasi lettura intimorisce.”
L'ultimo racconto, la Vita della bambina morta narra, alla fine, la storia di Madeleine, la sorella che Pierre non ha mai conosciuto perché è morta, ad appena sei mesi, prima che lui nascesse. Anche qui ritorna, anzi tocca il suo apice il tema principe del libro, l’inadeguatezza, la mancanza di parole, l’afasia scritturale. Nello sforzo di rimembrare la piccola creatura spentasi in un lampo prima della sua venuta al mondo Michon ricompone, fa confluire le due correnti che alimentano le Vite minuscole: l’assenza, la mancanza umana e la ricerca ossessionata della parola giusta, che deve conformarsi alla delicatezza dei ricordi, rievocare degnamente, riempire i vuoti subiti, resuscitare le vite perdute, attrarre a se le fragili anime disperse.
I drammi di queste piccole persone ci vengono rievocati in modo sensibile, ri[-]sentiti attraverso lo strascico di dolore, rassegnazione e delusione che è giunto ed alberga l’anima del narratore. Quest’ultimo, sembra, voler condividere la speranza che le esistenze dei suoi protagonisti siano riusciti a ritagliarsi un posto al sole nel al di là, fatto di ombre, memorie e ricordi, ma spesso, questo moto d’empatia, giunto al suo culmine, viene stroncato, come il verde filo d’erba sotto il colpo di falce del contadino, netto e subitaneo.
Emerge allora con un linguaggio crudo, a volte violento, la realtà implacabile della lontananza, dell’assenza. Ma, quel che è stato detto, resta detto e malgrado il gelo tombale calato sulle vite ripercorse in spirito, rimane impresso il tenue chiarore di vicinanza, di compassione tramandato dallo scrittore.
Storie di vite minuscole, di vite che hanno lasciato un vuoto, che se ne sono andate, che hanno abbandonato i propri, genitori, mogli, figli. Vite vissute, attraversando ed esorcizzando le assenze, che fluiscono in noi come il sangue nelle nostre vene, che sono una nostra esistenza parallela, ed infine, ci sequestrano e rapiscono dal mondo, assenze noi stessi.
Si palesa attraverso questo ricordo con tutta la sua chiarezza la vocazione, la missione di cui lo scrittore si sente investito: la scrittura come sommo atto di pietas, di elevazione a maggiore autenticità di vite, appunto, “minuscole”; le parole come gesti di magia che sostanziano in presenza reale ed eterna le ombre dei defunti, loro che attraverso il verbo si fanno carne.
Consigliato da
Andras
Viaggiare con Michon in mezzo ai suoi lussureggianti arcipelaghi linguistici, lessicali e sintattici è stata una vera folgorazione. Nei racconti dei suoi avi e conterranei ogni singola parola è scelta con precisione, assume un preciso significato all’interno della frase e del singolo racconto. È viva testimonianza del fatto che lo scrittore si è speso in una lunga ed estenuante guerra con le parole e con se stesso – trovandosi, per sua stessa ammissione - per lunghi tratti privo di munizioni. L’ossessione è alimentata dal senso di responsabilità sentita nei confronti delle parole, che è – merce rarissima nei nostri tempi di superficialità e sciatteria linguistica – responsabilità e rispetto verso gli uomini. Ne nasce una prosa semanticamente densa, che eleva attraverso la lingua poetica ed il ritmo cadenzato – quasi fosse un canto - le vite umili a totem ontologici, miti esistenziali. Vite minuscole si presenta come una lettura intensa, che ti rapisce per la bellezza e la ricchezza della lingua e quindi della visione/descrizione del mondo scarno del contado francese. È un libro che conferma – come se ne fosse bisogno – un dato: è la capacità espressiva, sono i tesori della lingua che rendono il nostro mondo variegato, pluralista e complesso perché solo loro sono capaci di palesarne la ricchezza alle nostre menti, alle nostre anime. Vite minuscole è un appuntamento da non perdere per ogni amante delle belle lettere.

Destinatari

Adulti
Anziani
copertina Vite minuscole

Vite minuscole

Michon, Pierre
Molto audace: recuperando una tradizione che risale a Plutarco, a Svetonio, all'agiografia, Michon ci racconta le vite di dieci personaggi non già illustri o esemplari, ma, appunto, minuscoli: e dunque votati all'oblio se non intervenisse a riscattarli una lingua ...
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