Un libro per una rosa
è il motto della festa di Sant Jordi
(San Giorgio), santo patrono della Catalogna. Quel giorno le coppie innamorate e
no usano scambiarsi un libro con una rosa, la donna viene omaggiata con il
fiore mentre il maschio riceve in dono un libro. Inutile dire che
dell’innamoramento approfittano ormai soprattutto il commercio librario e
florovivaista – difatti le strade di Barcellona e delle maggiori città catalane,
Girona, Lleida e Tarragona pullulano di bancarelle insolitamente cariche di
rose e di libri – ma il costume di abbinare il simbolo dell’amore a quello
dell’acculturamento o della saggezza, e assai più antico della proclamazione da
parte dell’Unesco del 23 aprile come Giornata del Libro. Sprecato anche il
riferimento all’orgoglio nazionale catalano: la rosa è spesso accompagnata da
una spiga di grano a simboleggiare la fertilità, ma forse si tratta anche di un
velato cenno a Els Segadors (I
mietitori), protagonisti della rivolta catalana del 1640 e a partire dal ‘900
dell’inno catalano. Rosa e spiga richiamano poi i colori della Senyera, la bandiera catalana con il
rosso e il giallo. Eppure, con buona pace dei nazionalisti questi due colori
sono anche, proprio per la compartecipazione della dinastia dei Trastámara al regno iberico,
quelli della bandiera spagnola. Sembra che quindi i festeggiamenti del santo
possano per lo meno per un giorno conciliare le due anime nazionalista/separatista
e unionista conviventi nel territorio a nord dell’Ebro.
Ci si chiederà perché parlare del 23 aprile ora, in piena
estate. Pertanto quest’anno Sant Jordi non è stato festeggiato come in passato
a causa della pandemia del Covid 19. Ebbene si direbbe pazienza la si
riproporrà con i migliori auguri l’anno prossimo. Prendiamo invece spunto dalla
festa del libro in terra catalana per ricordare la dipartita negli ultimi due
mesi di due (tre) rose – se è lecito il paragone – vale a dire quelle di Luis
Sepúlveda ad Oviedo e soprattutto - riferito al territorio barcellonese - di Carlos
Ruiz Zafón il 19 giugno e di Juan
Marsé il passato 18 luglio. I due autori della città comitale rappresentano,
come ovvio, in qualche modo la particolarità dell’essere scrittore a Barcellona
e di riflesso in Catalogna. Se il primo, nato come scrittore nell’era
postfranchista, pur restando fedele alla sua terra natìa nell’ambientazione dei
suoi romanzi, ambisce con le sue storie che ruotano spesso intorno a dei libri
ad un respiro per così dire internazionale – egli aveva eletto da anni Los
Angeles come domicilio – è Juan Marsé, il più anziano dei due e appartenente
alla Generazione ‘50, a proporre nelle sue opere la dicotomia tra
l’elemento barcellonese e quello immigrato spagnolo (soprattutto andaluso ed
estremeño), la dualità e lo scontro tra autoctono borghese e charnego operaio (charnego è l'appellativo spregiativo utilizzato dai catalani per indicare un immigrato, il più delle volte spagnolo proveniente dalle regioni meridionali della Spagna, quindi di madrelingua castigliana), tra il quartiere bene
di San Gervasio e l’area metropolitana sud povera e cenciosa di Hospitalet de
Llobregat; tutto in un bilinguismo che è non solo linguistico ma anche sociale
e antropologico e che percorre la storia letteraria catalana da almeno un
secolo. Partendo appunto da questa storia di con-vivenza e con-tradizioni, prendendo
spunto dal “libro per una rosa” dell’innamoramento e dai due innamorati delle
lettere che ci hanno lasciato proponiamo un breve viaggio per la Catalogna/Barcellona
letteraria.
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La Catalogna conobbe un suo sviluppo culturale e linguistico
a partire dalla conquista ed occupazione franco-carolingia. Come Marca ispanica
amministrata da conti-vassalli direttamente infeudati dai re la Catalogna (il
nome significherebbe “terra dei castelli” e condividerebbe quindi l’etimologia con
l’”odiata” Castiglia) costituì il baluardo cristiano verso le terre occupate
dai musulmani a partire dalla metà del 8º secolo. Con il disgregarsi del regno
carolingio nel corso del X secolo anche i conti-vassalli catalani si impadronirono
con il titolo di Conti di Barcellona di diritti e feudi appartenuti ai re di
Francia. I secoli XI-XIII si distinsero
per uno sviluppo culturale, politico ed economico in simbiosi con il territorio
confinante della Provenza che era allora la culla e principale promotrice della
rinascita letteraria europea. I Conti di Barcellona portavano in questo periodo
anche il titolo di Conti di Provenza e gli ultimi grandi trovatori di lingua
occitana erano pure di estrazione culturale catalana come stanno a testimoniare
nomi come Raimon Vidal, Berenguer de
Palou, Jofre de Foixa ed i due re aragonesi Giacomo II e Pietro III. All’acme della koiné letteraria e
linguistica provenzale si concretizzò la prima grande fioritura culturale
catalana intorno alla figura di Ramon
Llull (1232-1316), italianizzato Raimondo Lullo. Il beato maiorchino è
stato uno scrittore, teologo, logico, astrologo, alchimista, mistico e
missionario, tra i più celebri e prolifici dell'Europa del tempo (più di 260
opere in latino, catalano ed arabo). A testimoniare l’alto livello artistico e
linguistico raggiunto dalla lingua catalana sta anche l’adozione da parte della
corte aragonese del catalano come idioma ufficiale fino al 14º secolo
inoltrato. Il secondo momento rigoglioso della cultura in lingua catalana corrispose
alle opere del cosiddetto Petrarca catalano, ossia Ausiàs March (1397-1459), che influenzò notevolmente anche il
Rinascimento castigliano. Il cavaliere valenzano fu attivo alla corte dei re
aragonesi che stavano allora costruendo l’egemonia sul Mediterraneo con il
dominio sui regni di Maiorca, Valencia, Sicilia, Sardegna e Napoli, nonché la
Contea di Provenza ed il principato di Catalogna. Pure attivo alla corte fu il
cognato di Ausiàs, Joanot Martorell.
Il suo Tirant lo Blanch (Tirante il
Bianco), considerato uno dei primi romanzi moderni della letteratura
europea, legato al "secolo d'oro valenzano", ha poi esercitato
un'importante influenza sulla letteratura cavalleresca del Siglo de Oro.
Difatti Miguel de Cervantes lo apprezzava espressamente e fece leggere a Don
Chisciotte la prima versione tradotta in castigliano.
La decadenza politica catalana che seguì al cambio dinastico
avvenuto a seguito della unione tra le corone d’Aragona e di Castiglia (i re
cattolici e cugini di secondo grado Ferdinando II d’Aragona ed Isabella I di
Castiglia) da una e al riposizionamento politico-economico a seguito della
conquista dell’America dall’altra parte si tramutò anche in una fase di aridità
culturale prima e linguistica poi. Infatti la perdita della centralità della
corte aragonese significò anche la caduta in disuso del catalano come lingua di
cancelleria. Ma assai più incisivo fu il fatto che all’egemonia
politico-economica castigliana seguiva pure quella culturale del Siglo de Oro spagnolo
con esponenti come Cervantes, Lope de Vega, Calderon de la Barca e Quevedo. I
secoli 16º, 17º e 18º rappresentano il periodo buio della storia e cultura
catalana. Le innumerevoli rivolte sociali, siano esse state anticastigliane o
meno, culminarono nella sconfitta della Guerra di Successione Spagnola del 11/09/1711, La Diada – giorno della
caduta di Barcellona dopo 14 mesi di assedio e Festa nazionale catalana. La
presa di potere del borbone Filippo V coincise con l’abolizione dei diritti
rappresentativi delle Cortes catalane, lo spostamento dell’università da
Barcellona in provincia e la fine della lingua catalana come lingua ufficiale. Lo
stato di vivacità e diffusione dell’idioma neolatino scese ai minimi
soprattutto tra i ceti borghesi catalani che votarono a favore dell’ufficiale
castigliano tanto da richiedere dopo la metà del ‘800 l’intervento
“normalizzatore” morfologico-fonetico da parte dei partigiani di un rilancio
linguistico-culturale della llengua catalana.
La rinascita, Renaixença, della letteratura e lingua catalana è figlia del
romanticismo, come tante altre letterature e culture “minori”, dal provenzale,
galiziano allo sloveno, croato, ceco e slovacco. Alla riscoperta della bellezza
dell’idioma materno fece capo la rivitalizzazione degli usi e costumi autoctoni
e quindi una ricerca delle origini culturali che si credevano poste nell’età di
mezzo. Da qui il ricorso artistico alla riscoperta degli stili dominanti tra il
secolo 10º e 14º e la loro rielaborazione in senso sincretistico nel Modernismo catalano di fine 19º secolo.
Dal punto di vista letterario furono di primaria importanza la “riscoperta” dei
Jocs Florals, una tenzone poetica
d’età medievale e l’operato svolto dai due campioni del catalanismo ottocentesco
Joan Maragall e padre Jacint Verdaguer. Se l’avvocato e
giornalista Maragall ripartiva la sua attività letteraria e politica mediante
un bilinguismo perfetto tra una prosa castigliana e la poesia in catalano, fu
merito del sacerdote e poeta Verdaguer di aver riportato con la sua poesia di
nuovo l’idioma materno nell’ambito di una lingua letteraria riutilizzando e
plasmando il raffinato patrimonio poetico del medioevo catalano. Numerosa e
ampia fu la sua influenza sulla borghesia barcellonese amante delle Belle
Lettere e tanto convintamente nazionalista quanto antisocialista.
In questo clima culturale carico di passione per la lingua,
letteratura e storia del proprio paese crebbe all’inizio del secolo 20º la “grande
dame” della letteratura catalana, Mercé
Rodoreda. Nipote di un ammiratore nonché amico personale di Monsignor
Verdaguer e figlia di due genitori appassionati di teatro, Mercé nacque e
crebbe nel quartiere altoborghese di Barcellona, San Gervasio circondata
dall’amore per la prosa, la poesia ed il teatro. Ben presto iniziò a cimentarsi
con l’arte della recita (già all’età di 5 anni) e la lettura degli scrittori
catalani, classici e moderni. Benché il suo talento per la scrittura fosse
stato scoperto già negli anni ’20 dovette aspettare altri 10 anni fino alla pubblicazione
dei suoi primi quattro romanzi, scritti tra il 1932 ed il 1938 (tra i quali
spicca Aloma del 1938). La loro
pubblicazione le procurò l’iscrizione all’allora molto vivace e prestigioso El Club dels Novel·listes e alla Colla de Sabadell. Quando scoppiò la
Guerra Civile Spagnola nel 1936 Rodoreda decise di collaborare con l'incarico di revisore del catalano nel
Commissariato di propaganda della Generalitat de Catalunya dove conobbe una
serie di scrittrici contemporanee. Proprio il suo impegno a favore della
Generalitat e la sua nota produzione letteraria in lingua catalana le
consigliarono a prendere, alla fine della guerra con la sconfitta della 2ª
Repubblica, la via dell’esilio. Seguirono anni difficili di lotta per la
sopravvivenza economica e di fuga dalle truppe tedesche che avevano invaso la
Francia durante le quali la scrittrice catalana dovette interrompere l’attività
creativa. Finita la 2ª Guerra mondiale si stabilì prima a Parigi, poi a Ginevra
prima di ritornare definitivamente nel 1972 in Catalogna. Il periodo parigino e
ginevrino coincidono con la pubblicazione dei suoi maggiori romanzi, La piazza del Diamante (1962), Via delle camelie (1966) e Giardino sul mare (1967). Ormai
scrittrice affermata incrementò il suo carnet artistico con la produzione di
altri romanzi (Lo specchio rotto,
1974 e Quanta, quanta guerra…, 1980),
prose e poesie e l’inizio dell’attività pittorica. La scrittrice barcellonese,
che subisce le influenze letterarie di Marcel Proust, Thomas Mann e soprattutto
dell’amata Virginia Woolf, si distingue per la centralità nelle opere della
figura della donna, spesso scelta come personaggio protagonista, che
apparentemente fragile, è in grado al contempo di dimostrare una grande forza
interiore. Con Marcel Proust la accomuna la convinzione che il tempo avanza
impassibile e il passato lo raccoglie tutto. Il ricordo di un tempo anteriore
si trasforma in un simbolo negativo per i protagonisti a causa
dell'impossibilità di recuperare il "tempo perduto”. Le sue opere sono
ambientate nei luoghi in cui ha vissuto, dal quartiere barcellonese di Gràcia a
Romanyá de la Selva, passando per Ginevra. Nonostante una narrazione che indaga
l’intimità psicologica - caratteristica quest’ultima desunta dall’amatissima
scrittrice londinese - Rodoreda riesce a
descrivere la società catalana del ventesimo secolo e i cambiamenti a cui stava
andando incontro, come nessun altro scrittore aveva fatto fino a quel momento. L’appartenenza
alla borghesia benestante non le precluse lo sguardo realistico sul mondo dei
meno fortunati, siano essi indecenti o operai. Altra esponente dell’ambito
letterario barcellonese del postguerra spagnolo fu Carmen Laforet il cui maggiore successo editoriale Nada vinse nel 1945 il premio Nadal. A
differenza della Rodoreda la Laforet scelse il castigliano per i suoi romanzi
essendo approdata a Barcellona solo da studente universitaria nel periodo più
intransigente della dittatura e dopo un’infanzia ed adolescenza trascorsa a
Gran Canaria. Altra caratteristica che la distingue dalla stella della
letteratura catalana è il suo femminismo ma plasmato tutto in chiave
mistico-religiosa con una cifra tematica tutta pervasa dal intrigo e dal
mistero.
Con la vittoria del dittatore fascista Francisco Franco e la
conseguente soppressione di tutte le libertà repubblicane, incluse quelle
dell’espressione ed autonomia linguistica, si aprì nuovamente un periodo di
stallo e clandestinità degli attivisti catalani. Durante i primi anni della
dittatura franchista il genere letterario più dinamico in lingua catalana è la
poesia, non sottomesso alle esigenze editoriali del romanzo. Anzi in
quest’ultimo genere si verificò non raramente la conversione linguistica dal
catalano allo spagnolo anche in coloro che prima della dittatura si erano espressi
letterariamente nella loro lingua madre. La poesia diventa così, visto la
latitanza della forma diegetica, anche uno strumento di critica nella lotta
sociale e politica. Una piccola comunità di letterati si dedicò per un certo
lasso di tempo alla pubblicazione delle opere in catalano nell’esilio della
Città del Messico. Ma per una maggiore liberalizzazione dell’ambito produttivo
letterario in lingua spagnola, si dovette aspettare la fine degli anni ’60 e, a
riguardo del catalano, la morte del dittatore galiziano nell’anno 1974. Già a
partire dalla fine degli anni ’50 si mosse comunque qualcosa nel desolato
quadro culturale del franchismo. La generazione
’50 influenzata dall’eredità di Antonio Machado, si stacca volutamente
dall’esperienza di autori franchisti da una, ed autori politicamente impegnati
dall’altra parte, per rifugiarsi nella cura dell’io di una poetica spesso
intimista. Degno di nota è il fatto che questo movimento, i cui capisaldi erano
il gruppo di Madrid (Rafael Sánchez Ferlosio, Ángel
González, Claudio Rodríguez, Juan García Hortelano, Jesús Fernández Santos, Ana María Matute) e la Scuola di Barcellona (Carlos Barral*, Jaime
Gil de Biedma, José Agustín Goytisolo,
Juan Goytisolo, Alfonso Costafreda,
Jaime Ferrán, Juan Marsé), commutò
il proprio intimismo espressivo nel realismo sociale della così detta Novela social española* (opera
fondamentale fu L’alveare di Camilo José Cela; antesignano negli
anni ’30 fu lo scrittore Ramón José
Sender) che si confronta con l’incipiente sviluppo migratorio interno della
Spagna e con i suoi squilibri sociali. Proprio negli anni ‘50-’60, quelli del
boom economico e della cauta apertura ad un liberalismo economico rappresentato
da esponenti dell’Opus Dei allora al governo, si stava delineando un quadro
socio-economico ed antropologico che caratterizza tutt’ora il territorio
iberico e in particolare quello barcellonese. Accanto alla presenza di una
borghesia ed un artigianato di estrazione indigena è presente soprattutto nelle
periferie una numerosa classe operaia spagnola di provenienza meridionale,
andalusa, murçiana ed estremeña che solo lentamente e in parte è riuscita ad
integrarsi con l’elemento culturale-linguistico catalano. Luogo deputato di
tale processo integrativo e di mescolanza fu in primo piano Barcellona, dove –
a differenza della “campagna” catalana sostanzialmente arroccata sugli ideali
nazionalisti – si stava sviluppando una società multiculturale, a cui diede un
importante contributo la massiccia immigrazione dai paesi latinoamericana. In
questo clima di fiducia nelle sorti della Spagna democratica vi sono scrittori
che avendo iniziato a scrivere negli ultimi anni della dittatura proseguivano
ad adottare l’idioma castigliano – anche perché a differenza della generazione
degli anni ’20 e ’30 non avevano mai imparato il catalano a scuola; eccezione
in questo panorama editoriale può dirsi Quim
Monzó. Nato nel 1952 da padre catalano e madre andalusa, ha scritto le sue
opere quasi esclusivamente in catalano. Altro autore/poeta che scrisse le sue
opere (tra cui suo primo romanzo Il
giardino dei sette crepuscoli) nell’idioma del posto fu il coetaneo Miquel de Palol. Altri autori, come per
esempio il giallista Vázquez Montalban
(contemporaneo a Juan Marsé e dell’altro cultore del poliziesco Francisco González Ledesma ),
ignorarono nella prosa del tutto la lingua del posto per utilizzarla nella meno
poderosa produzione poetica. In linea di
massima va detto comunque che le generazioni di scrittori degli anni ’60 e ’70
non percepirono la scelta della lingua letteraria come una dichiarazione politica
di appartenenza linguistica. Essi operarono all’interno di un mondo in cui le
appena acquistate libertà permettevano l’uso di ambedue gli idiomi, quello
catalano “liberato” e quello spagnolo non più identificato con l’odiato regime
e “ridimensionato” a lingua paritaria. Il criterio di discernimento fu
piuttosto tra le due realtà territoriali: Barcellona come polo internazionale, città
multiculturale e bilingue contro il resto della Catalogna (incluse le città di
Lleida e Girona) impegnato nella rivitalizzazione delle tradizioni culturali
catalane, incluse la lingua. L’esempio più calzante è dato qui non tanto dai
letterati ma dall’ambito musicale dove i due massimi esponenti della Nova Cançó*, la nuova musica
cantautoriale catalana, rappresentano rispettivamente i due sentieri percorsi
anche dalla letteratura: Lluis LLach,
nato a Girona, uno tra i maggiori cantautori e musicisti europei, utilizzò
esclusivamente il catalano sia in musica che in letteratura; Joan Manuel Serrat, pure lui scrittore,
poeta, attore e musicista, era nato nel barrio operaio barcellonese di Poble
Sec da padre catalano e madre aragonese e scrisse le sue opere in tutte due le
lingue. A mescolare ulteriormente le carte ci pensava, a partire dal 2006, la
Generalitat che cercava di recuperare e per certi versi rendere egemone l’elemento
catalano nella quotidianità. Il risultato di una politica mirante alla
creazione di una forte “identità” autoctona fu la polarizzazione della società
catalana a partire dalla 2ª decade del secolo in corso, e in particolare quella
barcellonese caratterizzata da una forte presenza linguistica castigliana. L’apparizione
di una serie di giovani autori che scrivono, essendo vissuti e stati formati
nell’idioma “locale”, sia esso il catalano o il maiorchino, venne favorita dalla
politica dell’insegnamento scolastico. Questo uso della propria lingua non
significa, per lo meno nella maggior parte dei casi, un ammiccamento alle
tendenze politiche nazionaliste o indipendentiste. I giovani scrittori si
presentano, malgrado alcuni casi in cui la scelta di temi cari alla mitografia nazionalista
catalana segua ragionamenti di opportunità editoriale, piuttosto come cultori
di un universalismo radicato nel territorio natio (Lluis LLach, Carme Riera, Sebastià Alzamora, Jordi Cussà, Albert Sánchez Piñol) . Accanto a
questi ultimi vi sono inoltre autori che scrivono in castigliano pur essendo “catalani,,,
o per scelta personale o per ragioni di mercato editoriale (Carlos Ruiz Zafón, Ildefonso Falcones).
Essi partecipano comunque assieme al gruppo altrettanto numeroso di scrittori “castigliani”
di provenienza spagnola, intensamente
alle vicende politiche e culturali della loro patria elettiva – come sta a
dimostrare soprattutto Javier Cercas,
scrittore di origine estremeña trasferitasi già negli anni ’60 a Girona. Altri,
pochi autori infine scelgono ancora la via della dualità e del bilinguismo come
l’architetto e poeta, vincitore del Premio Cervantes 2019, Joan Margarit*. La sua poesia rifiuta le correnti poetiche
soggettiviste e intimistico-mistiche. Il poeta si deve aprire alla realtà, deve
essere perciò il più realista, il più pragmatico possibile. Egli si trova nelle
intemperie del mondo, cerca la verità, affronta con passione le cose spurie e
contradittorie della vita e, si direbbe, anche della lingua. Lo stesso Margarit
ne è un’esempio: nel 2010 ha lanciato – per l’inaugurazione della maggiore
festa barcellonese, quella della Merçe
– un richiamo affinché la terra natia si decida quali relazioni intrattenere
con la Spagna; nel 2019 alla consegna del Premio Cervantes il poeta decide di
dedicare alla platea dei convocati una poesia sul suo rapporto con il
castigliano che qui offriamo al lettore a modo di vademecum:
Dignidad
Si la desesperanza / tiene el poder de una certeza lógica, / y la
envidia un horario tan secreto / como un tren militar, / estamos ya perdidos.
// Me ahoga el castellano, aunque nunca lo odié. / Él no tiene la culpa de su
fuerza / y menos todavía de mi debilidad. // El ayer fue una lengua bien
trabada / para pensar, pactar, soñar, / que no habla nadie ya: un subconsciente
/ de pérdida y codicia / donde suenan bellísimas canciones. // El presente es la
lengua de las calles, / maltratada y espuria, que se agarra / como hiedra a las
ruinas de la historia. // La lengua en la que escribo. // También es una lengua
bien trabada / para pensar, pactar. Para soñar. // Y las viejas canciones / se
salvarán.
Fonte: Wikipedia
* Fonte: Wikipedia in lingua spagnola