Sin dalle prime pagine mi colpì quel forte contrasto tra l'atmosfera livida, tipica delle desolazioni concentrazionarie da una parte e quel sentimento di calore familiare di una casa governata con tutti i crismi - cuoche, aiuti domestici, amici della famiglia, cane - dall'altra. Nulla vi manca che non possa far pensare ad un focolare accogliente e viene quasi quasi voglia di mischiarsi con gli abitanti del maniero. Se non fosse appunto per lo spazio fuori di casa, il palcoscenico non più del singolo, ma quello delle masse, della storia e delle sue tragedie. Ecco, esser riuscito ad evocare magistralmente nello scenario millenaristico di una “Germania anno zero” i giorni e le settimane di uomini – si direbbe di piccoli, ordinari cittadini tedeschi - dotati di paraocchi, gravati di colpe riconosciute e non riconosciute, ma comunque nel loro piccolo capaci di moti d’umanità e di una strenua, quanto inutile lotta di sopravvivenza è il merito di Walter Kempowski. L'autore descrive la soggettività delle sue figure con delicatezza conferendo, malgrado il distacco, a loro un calore umano che contrasta con la drammaticità degli eventi narrati e l'aura raggelante ed estraniante dell'esodo tedesco del 1945.