Prendendo in mano Trafalgar di Benito Pérez Galdós mi sono chiesto se la sua lettura mi riportasse alle esperienze precedenti con la letteratura marinara, soprattutto inglese e con un po’ di malizia mi posi la domanda di come uno spagnolo fosse riuscito ad elaborare un episodio della propria storia recente così traumatico come la sconfitta del capo di Trafalgar. Dopo aver letto le poche pagine introduttive ho potuto notare il contrario di quanto temetti: il romanzo storico dello scrittore canario non scimmiotta la ben corposa letteratura britannica sulle guerre in mare, ed in particolare quelle napoleoniche, ma sa dargli con l’invenzione picaresca del fanciullo un tocco originale, genuinamente ingenuo in mezzo all’inevitabile apoteosi dei combattenti, in primis spagnoli e poi inglesi. Appare infatti stimolante la tensione, quel po’ di irrisolto che percorre tutto il romanzo, tra il punto di vista del bambino che, l’autore lo sottolinea ripetutamente, ignora ancora molte cose e la visione panoramica sull’evento storico e sulle peripezie della vita in generale del vecchio narratore. È, in realtà, quest’ultimo a declamare il panegirico patriottico della battaglia, ad erigere l’epitaffio letterario agli eroi. Ma la sovrapposizione del bambino fa sì che ne il pathos risulta in qualche modo inficiato, ironicamente limitato tanto da permettere all’autore quell’ultima sentenza sull’inutilità della carneficina. Là le esperienze del bambino e del vegliardo si incontrano, si integrano l’una con l’altra nella loro atemporalità, a chiusura o apertura del ciclo della vita.