La fessura che fende i pesanti tendaggi del palcoscenico si allarga e l’occhio viene catturato da un gruppo di attori. Voci e gesti riempiono lo spazio e traboccano verso la platea in basso, gremita di spettatori elettricizzati da quanto accade sul palco. Cambia l’inquadratura della camera. Un signore distinto, di una certa età, vestito alla popolana, è in procinto di darsi in pasto al pubblico. Varca la soglia del palco e fa scatenare le ovazioni degli spettatori. É lui il mattatore della scena, Edoardo Scarpetta, in arte Felice Sciosciammocca, il patriarca della commedia napoletana di fine ‘800 nonché di una tra le famiglie, i Scarpetta-De Filippo, più "estese" di Napoli.
Sì, perché Scarpetta passa senza soluzione di continuità dalla scena alla cucina, dal teatro a casa, con il sipario che si confonde alle tende delle tante finestre che si affacciano dai suoi ricchi appartamenti sulla città, su Napoli. Un istrione della commedia teatrale, che si fa spettatore solo quando sottopone i suoi vari figli, legittimi o illegittimi, a un sadico rito di iniziazione. Quello che vede costretti i rampolli, variamente intesi, a intonare nel modo giusto, nei panni di Peppiniello di Miseria e Nobiltà, il tormentone: “Vincenzo m’è padre a me”. Lo zio riconosciuto e svelato in realtà come padre. Ancora una conferma di come vita e teatro fossero una cosa sola, per Scarpetta.
Una vita familiare contraddistinta da una prole numerosa e variegata, ben 9 figli, di cui soltanto 2 suoi legittimi avuti con la moglie Rosa De Filippo – il terzo, veramente “figlio del re”, Rosa l’ha avuto con il sovrano Vittorio Emanuele II. Una tribù, si è detto, perché oltre a questi vi sono i tre figli, mai riconosciuti, della nipote di Rosa, Luisa, icone del teatro napoletano e italiano del XX secolo, Edoardo, Titina e Peppino De Filippo, a cui si aggiungono i figli avuti dalla sorellastra di Rosa, Anna De Filippo, Ernesto Murolo – padre di Roberto Murolo - e Edoardo (De Filippo) Passarelli, attore pure lui. Lo sciupafemmine Scarpetta al vertice di genealogie ben poco lineari che, con le loro “terminazioni” parentali, hanno impresso indelebilmente e in buona parte il proprio timbro sulla cultura napoletana del secolo scorso!
Il tema centrale del film – anche se di fronte al fiorire lussureggiante dei rapporti familiari questi corre il più delle volte sotto traccia - è il famoso processo che D’Annunzio intentò a Scarpetta. Il Vate, notoriamente incapace di comprensione ironica - figuriamoci se questa investiva poi il suo proprio ego – apparentemente concede al comico partenopeo il bene placet per parodiare la “tragedia rustica d'argomento abruzzese" sua, La figlia di Iorio. La trasformazione irriverente in Il figlio di Iorio, al di là dall’essere un flop causato dai pasticci combinati dall’attrice protagonista, scatena l’animosità dei collaboratori di D’Annunzio. Il processo diventa così un caso-pretesto per contrapporre due culture opposte – si direbbe l’imperialismo borghese italiano contro la camaleontica napoletanità proletaria. “Contro” si schierano i giganti dello spettacolo e della scrittura come Salvatore Di Giacomo, Libero Bovio e Roberto Bracco, fautori di un’arte napoletana, a loro dire, popolana ma seria, mentre Scarpetta è solo un attore che fa ridere. Col comico si schiera invece, nientemeno che Benedetto Croce: proprio perché Scarpetta fa ridere su un testo nato drammatico, non sarebbe dunque condannabile. L’imputato, in tribunale, si difende alla sua maniera, da attore comico, è intelligente e travolgente. Fa ridere i presenti, riuscendo persino a mettere in ridicolo il grande D’Annunzio. E viene assolto.
Questo perché le sue commedie popolari non avevano bisogno di esibire forme tragiche per essere tragiche, perché erano esse stesse espressione diretta della sofferenza del popolo, Scarpetta rivendicò con la parodia l’inseparabilità di comico e tragico che gli impomatati collaborazionisti napoletani del Vate volevano, invece, separare con i loro paludosi drammoni.
La causa che gli intenta Gabriele D’Annunzio lo proietta da una parte al culmine della sua fama, ma dall'altra - la sorte è sempre bifronte - dà anche il via alla sua “discesa”. In realtà lui non si ritirò, ma quella fu una crepa che non si richiuse mai. Termina così la parabola, il volo pindarico di uno tra i più geniali autori napoletani, quello che – spinto dalle paure infantili che suscitava in lui la maschera scura – ha detronizzato Pulcinella. E come ogni padre spirituale ucciso, la maschera torna a perseguitarlo quando il ciclo della vita e dell’arte lo pone a sua volta di fronte a una nuova generazione, a nuovi slanci e gusti – il cinematografo che, come una novella Circe, richiama amici e infine persino figli suoi.
Qui rido io racconta la figura di un predatore di donne, famiglia e palcoscenico, devoto al culto della risata e degli applausi, per lui fattore cruciale, il respiro che alimentava il suo successo e la sua felicità. Un film scandito da nascite e debutti, trionfi e fischi, invidie e rancori. Con il terrore del suo unico spauracchio, l’insuccesso, l’abbandono del suo pubblico, fragilità di ogni artista.