Orestea, di Eschilo

Il "mysterio" della legge umana e divina

Creato da:
Andras
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Ultimo aggiornamento: 25/06/2022

Proporre la lettura di testi della nostra civiltà greco-romana suscita spesso in chi consiglia e forse anche nello stesso destinatario del suggerimento una reazione di perplessità, o comunque di cauto distacco. Troppo condizionante sembrano essere le esperienze scolastiche e troppo lontane appaiono le sensibilità psicologiche dell’età classica all’”uomo (post)moderno”. Vada ancora la lirica e l’epica narrativa, più aperte ad atmosfere intimistiche la prima ed agli spiriti avventurieri la seconda – benché scene come il commiato di Enea da Didone in Virgilio eccellono in carica emotiva melodrammatica . Più arduo si fa l’approccio alla disciplina regina della letteratura antica, la tragedia. Questo genere di spettacolo, cardine della comunità civile greco repubblicana resta, come ovvio, il più delle volte relegato alla fruizione nei teatri, ma vale la pena di cimentarsi nella lettura del testo magari prima dell’appuntamento teatrale o anche indipendentemente da quest’ultimo, per un confronto personale.
Il consiglio odierno, l’Orestea di Eschilo è frutto della lettura preparatoria allo spettacolo tenutosi questo maggio nel Teatro greco di Siracusa dove l’Agamemnone ha inaugurato la stagione del 2022. La tragedia intorno alla sorte del condottiero della spedizione degli achei contro Troia è il primo tassello di una trilogia che con le seguenti Coefore e Eumenidi conclude il ciclo drammatico-mitologico sulla discendenza degli Atridi e con loro della città peloponnese di Argo. Un ciclo mitologico che gronda sangue dall’inizio fino alla fine. Atreo che, preoccupato di un eventuale rovesciamento del suo potere per mano di Tieste e della sua discendenza, fa uccidere quest’ultima dandola in pasto al fratello, loro padre. Questi, accortosi della mostruosità, fuggendo maledice Atreo e la sua stirpe, vale a dire Agamemnone e Menelao. I rispettivi re di Argo e Sparta (un’altra tradizione li disegna come co-regnanti solo a Sparta) sposano le due sorelle Clitemnestra ed Elena. Fino a qui nulla sembra inficiare l’armonia delle due casate se non fosse per il tradimento di Paride – quello di aver violato il principio di ospitalità offertogli da Menelao ed aver rapito la di lui moglie, Elena. Con la guerra di Troia la progenie degli Atridi ridiventa bersaglio delle più spaventose sciagure. La flotta dei Greci navigava verso Nordest ma innanzi ai venti contrari, dovuti al capriccio di una Dea offesa o insoddisfatta, c’era da fare il solito sacrificio riconciliatorio. Ma questa volta l’Artemide non si accontentava di un volgare capretto o agnello, chiedeva niente di meno che la primogenita di Agamemnone, Ifigenia. Il padre inorridito, pienamente consapevole del sacrilegio chiestogli, rifiuta inizialmente, per infine cedere alle richieste degli altri condottieri e alle minacce del esercito di eleggere un altro capo spedizione. Con l’inganno di lei e di sua madre Clitemnestra (o meglio con lo zampino che mise Odisseo) Ifigenia venne richiamata ad Aulide dove accetta eroicamente la propria morte. Come per miracolo girano i venti lasciando libera la flotta degli Achei di navigare verso l’Asia minore e Clitemnestra acciecata dal demone sanguinario giurare vendetta per l’atroce sorte riservata alla propria creatura. L’”Agamemnone” di Eschilo inizia nel momento di ritorno dell’eroe argivo da Troia. Cupi ed angosciosi si fanno i presentimenti di tutti i partecipanti, meno Agamemnone stesso. Clitemnestra finge gioia per il ritorno dal marito che per l’ambiguità di una serie di giochi di parole si rovescia nella proiezione dell’evento infausto. Abbiamo detto che, a parte il re stesso, tutti sanno. E a vedere con terrificante chiarezza il macabro spettacolo della morte di Agamemnone e con essa la propria si erge l’infelicissima Cassandra, figlia di Priamo, condannata ad essere veggente mai creduta, ora bottino di guerra (cioè schiava d’amore) del comandante in capo. Sembra che sia essa stessa ad aprire il sipario della casa reale di Argo con Agamemnone riverso, colpito tre volte a morte da sua moglie. L’ex corteggiata di Apollo assiste con allucinata chiaroveggenza all’atroce delitto, anticipando le future funeste sorti della casata argiva. Inorridito vi partecipa con essa il coro stesso che mosso dalla compassione la implora di non entrare in casa. La giovane donna, conscia dell’ineluttabilità del destino, consapevole del proprio sacrificio sull’altare del fato, varca la soglia per essere abbattuta da Clitemnestra, moglie tradita due volte in quanto madre privata della figlia e moglie svilita dalla presenza della concubina. Di fronte alle rimostranze accese del coro la sorella di Elena si dimostra combattiva, pienamente cosciente del proprio gesto che difende con orgogliosa ferocia, proprio sulla scia dell’odio insorto per la perdita della figlia sull’altare del potere. Nulla sembra scuotere la sua determinazione se non alla fine la consapevolezza – ed è qui che da carnefice diventa vittima – di far parte comunque di una stirpe maledetta dal demone sanguinario, progenie nella cui casa le Erinni cantano il loro agghiacciante inno di vendetta. Si chiude qui il sipario con Clitemnestra grondante sangue che già ora sembra mescolarsi con il proprio.
Le Coefore sono il seguito delle vicende di Agamemnone e Clitemnestra e girano intorno alla vendetta che Oreste ed Elettra, figli dell’ex re e della regina di Argo, tramano contro la propria madre e l’amante di lei, lo zio Egisto. Oreste, allontanato dalla madre prima del ritorno di Agamemnone proprio per poter liberamente espletare l’uxoricidio, è di ritorno dall’esilio e pronto, su mandato dello stesso Apollo, a vendicare l’omicidio del padre. Da viandante in incognito guadagna la fiducia della sorella Elettra che sorprende mentre offre i propri sacrifici allo spirito dell’infelice padre. Tutti due escogitano il piano per assassinare prima Egisto e poi Clitemnestra. Quest’ultima, lontana dall’essere la spietata carnefice dell’Agamemnone, è tormentata da oscuri presagi e tormentati sogni. È tangibile la paura ed il presentimento della propria morte. Eliminato lo zio, Oreste si palesa alla propria madre con l’esplicitazione di volerla uccidere. Disperata Clitemnestra si palesa a sua volta per quello che è, la donna che lo ha nutrito sin dalla sua nascita. Segue un confronto di straordinaria tensione durante il quale la regina soccombe una dopo l’altra alle argomentazioni, rispettivamente di difesa ed offesa, avanzate da suo figlio. La Clitemnestra combattiva, fiera propugnatrice del piano assassino è un pallido ricordo. Essa stessa si rivela essere vittima per mano e per volere della propria creatura, come lo fu Ifigenia in precedenza. Questa volta non assistiamo alla scena del delitto, il matricidio spietato e calcolato avviene nell’intimità delle camere del palazzo, indegno di conquistare la pubblicità del palcoscenico. Anche in questo caso, come alla fine del primo episodio della trilogia, chi si macchiò del più efferato tra i delitti, l’assassinio della propria nutrice, ben presto si cangia in vittima. Oreste, fiero vendicatore del suo padre, assistito dal dio Apollo nell’orrenda impresa, vacilla alla vista terrificante dell’Erinni, che non lo lascerà più fin quando il delitto contro sua madre sarà vendicato.
Le peregrinazioni di Oreste ed infine la sua assoluzione sono il soggetto dell’ultima delle tre tragedie, le Eumenidi. Da poco estratta la lancia dal corpo della madre, Oreste ancora grondante sangue si rifugia presso il santuario apollineo di Delo. Lì con in mano un altissimo ramo d’olivo egli si presenta come supplice di fronte al Dio. Questi li promette il suo appoggio contro le Dee della vendetta che non lo perdono mai d’occhio e gli consiglia di recarsi al tempio di Atene nella città omonima dove dovrà attendere la sentenza di condanna o assoluzione. Durante il tragitto si fa serrato il confronto proprio con le Erinni, rappresentate dal coro. Come già Clitemnestra nelle Coefore, Oreste soccombe alla forza argomentativa delle creature dell’Ade: l’omicidio di chi ti ha nutrito con il proprio seno non conosce assoluzione nemmeno da parte degli Dei. Solo l’intervento di Apollo evita il dispiegarsi dei lugubri intenti delle Gorgoni. Con Oreste aggrappato al simulacro della Dea Athena all’interno del tempio sull’Acropoli ci si sposta su un terreno familiare agli spettatori del 458 a. C. Vediamo allora inscenata l’apoteosi civilizzatrice ed umanizzatrice della giustizia in generale, che significa per Eschilo ed il suo pubblico quella ateniese. Appare la figlia più amata da Zeus per diramare il contenzioso tra Apollo e le Erinni e riconosce – è questo il dato rivoluzionario – che benché gli uomini non si adattano a giudicare fatti sì gravi anche gli Dei non trovano opportuni ad intervenire per porre fine a simili sciagure – dato che il più delle volte queste ultime sono scatenate da beghe e rivalità interne all’Olimpo. Pallade Atena passa con l’istituzione del tribunale sull’Aeropago, contante 11 giudici, astante il popolo ateniese, lo scettro della giustizia agli uomini, rappresentanti di Atene. D’ora in avanti saranno loro a giudicare quei delitti di sangue che finora nel mondo mitologico trascendevano il singolo reo per inoltrarsi e investire tutto il ghenos, la stirpe degli uomini di un dato territorio, con il protrarsi del demone sanguinario di generazione in generazione. Sono quindi i rappresentanti dell’Areopago, un consesso umano, oligarchico della città, a votare, assieme agli Dei presenti, il destino di Oreste. La votazione si conclude con 6 voti a favore e 5 contrari all’assoluzione del figlio di Agamemnone. La fondazione della giustizia areopagitica dovrà garantire la manutenzione della pace ed il governo della comunità dei cittadini in armonia, placando infine anche le ire delle Erinni, divinità della vendetta. Esse stesse sembrano alla fine della trilogia suggerire la ricetta di un’impresa sì difficile: le paure, le angosce vissute finora dagli uomini nei loro presentimenti e presagi saranno plasmate e confluiranno nel giusto timore della legge, perché solo l’uomo baldanzoso, smisurato non rispetta i dettami e le regole della convivenza. La trilogia termina con la celebrazione di sacrifici propiziatori da parte delle ministre della Dea. Vi assistono, oltre ad Oreste, tutta la cittadinanza di Atene, donne e fanciulle comprese. Il sipario si chiude con l’uscita di tutti e l’auspicato ritorno del nuovo re Oreste ad Argo.

Consigliato da
Andras
Memore degli insegnamenti classici mi sono trovato subito coinvolto nel noto tessuto mitologico con le sue leggi ferree circa il rapporto tra universo e uomo. Lì Agamemnone, Clitemnestra, la stessa Ifigenia e suo fratello Oreste vengono mosse come se fossero birilli sulla pista da gioco degli Dei, divinità crudeli ed ostili agli uomini. Questi ultimi conducono quindi un’esistenza connotata principalmente dal dolore e da una crudeltà insensata, inumana e capricciosa dove il fato imprime la sua tabula rasa alle loro aspettative. Ora inoltrandomi nella lettura mi resi pian pianino conto che Eschilo attuava sul vecchio patrimonio delle credenze antichissime un’operazione di civilizzazione, di umanizzazione. Ed ecco che spettacolo, che emozione sentire come Clitemnestra da figura mitologica inavvicinabile si rinsangua con sottili emozioni, giochi di travestimento, agoni dialettici che non tolgono l’impronta crudele ad essa, ma la fanno apparire, se non ancora un personaggio a tutto tondo, per lo meno un essere umano con le sue aspirazioni, con le sue paure, angosce e dolori. Che grande invenzione quella di far cangiare atteggiamento alla crudele madre di Oreste proprio alla fine della prima tragedia, quando, ai suoi piedi i cadaveri del marito e di Cassandra, la sua spavalda brutalità è insinuata dalla consapevolezza, concorde con il coro giudicante, che tutto il genio degli Atridi, lei compresa, soggiace ad un destino terrificante, e quindi anche lei da vittima si rassegna al fato. Lo stesso percorso è compiuto da Oreste, matricida. Ambedue sono consapevoli della propria sorte, che scelgono fiduciosi nella loro capacità di dominare gli eventi. A torto nel caso di Clitemnestra, a ragione in quello di suo figlio. É in Oreste che si compie infine la redenzione dell'uomo dalla condanna al delitto giusto nel momento in cui questi accetta consapevolmente la propria sorte – vale a dire il mistero del rapporto tra lui e gli Dei - conquistando la propria dignità e responsabilità. Egli di certo non compie questo tragitto da solo: vi sono pur due divinità a sostenerlo, ma alla fine è Oreste stesso, giudicato dai suoi simili, a farsi, detto con una certa enfasi, individuo. È questo afflato religioso che consente ad Eschilo infine – come una sorta di patrimonio ateniese da lasciare all’umanità – di svolgere le sue implicazioni etiche nell’ammonimento a non osare troppo, a conoscere se stessi e i suoi limiti. L’aurea mediaetas si direbbe che si fa pietra miliare alla nascente amministrazione della giustizia. Il modo con cui i significati ultimi dell’esistenza umana sono trattati, colloca i protagonisti di queste tragedie al punto iniziale del percorso che l’individuo ha compiuto nella nostra civiltà, acquisendo sensibilità, animo ed intelletto che sono presenti in nuce già nelle tragedie di questo periodo. Un’età assiale, quella del VI secolo a. C. che vedeva in contemporanea la nascita dell’Antico Testamento, della filosofia e della tragedia greche. Ma non è un caso che l’uomo moderno occidentale riconosca la nascita della sua consapevolezza non nelle lande mediorientali, bensì nell’agorà, negli ambulatori delle scuole filosofiche e, non per ultimo nei teatri di Eschilo, Sofocle ed Euripide.
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