Considerare le vittime delle “sette criminali” – così venivano definite a metà del XIX secolo – protagonisti tout court sembra in un certo senso un azzardo e una distorsione dissacrante. Intanto perché tutti lo furono loro malgrado. Chi si opponeva alla criminalità organizzata perdendo a causa di quest’opposizione reputazione, beni, familiari e vita fu invece certamente una vittima. Lo stesso si può dire della folta schiera degli ammazzati “innocenti” che si trovavano nel proverbiale luogo sbagliato al momento sbagliato. Sono le vittime delle sparatorie, delle stragi dinamitarde o dei scambi di persona. Ad esse si aggiungono la pletora di poveri “cristi” – di sicuro centinaia e centinaia - che per qualche piccolo contenzioso o sgarro sono stati eliminati senza pietà e di cui nessuna penna di giornalista si è degnata di lasciare memoria. Per la consueta inettitudine ed ingiustizia dell’imperfezione umana figurano quali vittime anche gli stessi mafiosi - boss, sicari, caporioni, bassa e meno bassa manovalanza – che, dato che Cosa Nostra e simili non sono notoriamente accoliti della pace nel mondo, si massacravano vicendevolmente per interessi materiali o presuntamente spirituali. Loro si addice questo aggettivo al massimo in quanto pare non abbiano avuto la giusta dose di intendere e volere per disgregarsi dai tentacoli della piovra assassina.
Il potenziale criminoso della novella setta dovette essere già molto alto visto che già al tramonto del Regno delle Due Sicilie si tentò un agguato all’allora comandante della gendarmeria borbonica nell’isola. Furono poi i torbidi della conquista prima garibaldina, poi sabauda a dare ulteriore ossigeno all’organizzazione che già allora si insinuò nei gangli dell’amministrazione pubblica e della politica. Significativo in tal senso è il presunto coinvolgimento e la prima citazione della parola maffia nelle vicende segnate dal ex-generale garibaldino Corrao, oppositore al regno sabaudo ed dal suo assassino (pare) di stato nel 1863. Altrettanto scalpore dovette suscitare nell’opinione pubblica di allora l’accoltellamento in treno di Emanuele Notarbartolo, ex sindaco di Palermo ed ex direttore del Banco di Sicilia al finire del secolo (1893). Minor pubblicità venne tributata poi ai delitti ed alle uccisioni di così detta gente piccola. Il carabiniere ucciso dai parenti in quanto violò il codice mafioso, il custode d’acqua del manicomio di Palermo perché si rifiutò di cederne il controllo ai malavitosi, il guardiano fondiario ucciso a colpi di lupara in quanto si era opposto alle estorsioni. La povera domestica di 17 anni rimasta incinta a seguito di una relazione con il figlio di un boss. Vi furono poi già le uccisioni accidentali o forse trasversali: sempre una diciassettenne fu uccisa da un colpo di fucile in un attentato contro la madre sospettata di avere denunciato alle autorità lo spaccio di banconote false. Che dire poi del delegato di sicurezza morto suicida dopo il suo trasferimento da parte del prefetto! Lo sciagurato osò denunciare un sindaco per collusione con la mafia. La vedova riuscì a far arrivare quelle denunce in tribunale, ma il processo stabilì che la mafia non esisteva e si concluse con l'assoluzione degli imputati. Come dire, scenari che si ripeterono poi ininterrottamente fino ai nostri giorni.
Con i tentativi di emancipazione sociale di operai e contadini alla soglia del nuovo secolo entrano nel mirino della mafia per restarvi per tutto il resto del 20º secolo rappresentanti dei movimenti per la riforma agraria, sindacalisti, membri della camera di lavoro, segretari delle federazioni comuniste e socialiste. La mafia mal tollerava la liberazione dei siciliani dalle catene del latifondo e l’assegnazione delle terre a chi le coltivava come stava poi a dimostrare la strage di Portella delle Ginestre nel 1947. Che i mafiosi serbassero la memoria lunga è dimostrata già nel dopoguerra dall’uccisione di un comandante dei vigili urbani, reo di aver partecipato nel 1926 alle retate del prefetto Mori.
Nel frattempo caddero vittime, come si è detto, semplici cittadini, mezzadri, contadini, pastorelli, medici, maestri elementari e soprattutto carabinieri: l’anno 1945 ne contò ben sette caduti. Nel 1963 morirono 7 tra membri dell’Arma e dell’esercito nella prima esplosione di un’autobomba a Ciaculli. Da allora il contributo di sangue pagato dalla Benemerita e dalla polizia di stato fu enorme: negli anni ‘70 il tenente colonnello Giuseppe Lo Russo, il capo della mobile di Palermo Boris Giuliano, il capitano Emanuele Basile, il generale Dalla Chiesa, i dirigenti di polizia Beppe Montana e Ninni Cassarà, per non parlare degli agenti e appuntati operanti di scorta ai loro superiori, ai magistrati e politici.
Giudici, procuratori e altri magistrati si trovarono sin dai primordi nel mirino dell’attività criminale di Cosa Nostra. Le prime due vittime della Mafia risalgono al 1861, rispettivamente giudice e giudice consigliere della corte d’appello di Palermo. Nel 1874 cadde vittima il figlio di un cancelliere della pretura di Bagheria, dopo che il padre si era distinto nella lotta contro i malavitosi ed i loro notabili. Quasi 100 anni dopo vi fu l’assassinio del procuratore capo di Palermo Pietro Scaglione e del suo agente di scorta (1971). L’uccisione segna la scia di sangue che dovette da allora in poi investire i magistrati siciliani, vittime nell’espletamento del loro dovere di difendere la giustizia: il 1979 segna l’uccisione del giudice e politico Cesare Terranova; nel 1980 il procuratore capo di Palermo Gaetano Costa, nel 1983 perirono nello scoppio di un autobomba in Via Pipitone il giudice Rocco Chinnici assieme a due carabinieri di scorta ed il portiere dello stabile. Nel 1985 la Mafia volle colpire il sostituto procuratore Carlo Palermo. L’autobomba uccide la signora Barbara Rizzo che passava in quell’istante facendo schermo alla macchina del magistrato. Gli anni ‘90 vedono poi un attacco frontale dei corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano contro i giudici, dato che le tecniche investigative e soprattutto il costituirsi del lavoro in gruppo (i pool antimafia) cominciarono a mettere alle strette boss, affiliati e fiancheggiatori. Nel 1990 la Stidda trucida Rosario Livatino, giovane magistrato di Agrigento. Ne seguono Antonino Scopelliti (1991) e nel 1992, anno terribile, nelle stragi di Capaci e Via d’Amelio Giovanni Falcone con la moglie Francesca Morvillo e Paolo Borsellino con 8 agenti di scorta. Sembrava che allora l’intera magistratura siciliana fosse alla mercé di Cosa Nostra, eppure l’esperienza fondamentale inaugurata e portata avanti dai colleghi assassinati nei decenni addietro portò a risultati importantissimi, all’arresto dei boss latitanti della fazione dei corleonesi che avevano insanguinato l’intera nazione con la loro strategia stragista e all’individuazione, seppur parziale, dei legami con i livelli alti di politica e stato.
L’ambito politico italiano non ha avuto di fatto molto spesso un atteggiamento cristallino nell’opporsi alla mafia. Troppe e troppo antiche erano spesso le convivenze con la criminalità organizzata. Molti sindaci agivano alle dipendenza di Cosa Nostra, come quello di Villabate, un certo Francesco d’Agati, che favorì l’espatrio di Lucky Luciano verso l’America latina. Il comune di Villalba è stato retto nel dopoguerra dal “mitico” Calogero Vizzini, amico del Luciano, ossequiato e insignito del cavalierato, come pure l’amico di altolocati politici romani, Giuseppe Genco Russo. Ben prima di Vito Ciancimino, Salvo Lima ed i cugini Antonino e Ignazio Salvo la politica comunale, provinciale, regionale e, a volte, nazionale si trovò legata a doppio filo con i boss. Se questo sostegno reciproco non era frutto di una scelta esplicita, spesso era il prodotto di una coercizione ambientale. Chi denunciava e si opponeva a questi meccanismi, dal più piccolo consigliere comunale fino al presidente della regione, rischiava e perdette la vita, come l’ex sindaco Insalaco (1988). Altri politici si distinsero per aver con coraggio e determinazione lottato contro la ragnatela mafiosa. Il predecessore di Insalaco, la sindaca Elda Pucci sopravvisse ad un attentato dinamitardo dei corleonesi e al fatto di essere anzitempo “dimissionata” dal suo stesso partito. Meno fortunati furono il democristiano Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia e Pio La Torre, segretario regionale del PCI, trucidati su mandato della cupola e, probabilmente, secondo dei disegni geopolitici ideati a livello nazionale e internazionale in linea con la strategia della tensione.
Meritano la nostra menzione e riconoscenza quegli operatori che da cittadini hanno avversato e cercato di debellare l’influenza della mafia nella società civile. Dal ghandi siciliano, Danilo Dolci, l’unico passato in modo pacifico a miglior vita, ai meno fortunati Peppino Impastato, Giovanni Spampinato dell’”Ora” di Palermo, il giornalista Giuseppe Fava, Mauro Rostagno, a Don Pino Puglisi e Libero Grasso. Infine va tenuta viva la memoria delle innumerevoli vittime dello stragismo mafioso, da quelle della Via dei Georgofili a Firenze, le sorelline Caterina e Nadia Cencioni con i loro genitori ai vigili del fuoco ed altri della strage di Via Palestro a Milano.
Falcone, Maria
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Cappuccio, Ruggero
In "Paolo Borsellino essendo Stato", Ruggero Cappuccio si concentra sull'ultimo secondo di vita del magistrato palermitano. In questo infuocato residuo di tempo, Borsellino dubita di essere ancora vivo e suppone di essere già morto. Rivive così la sua esistenza da...
Panizza, Giacomo <1947->
Prima di andare a "Vieni via con me" ospite di Roberto Saviano, pochi conoscevano il coraggio e l'impegno di questo prete anti-'ndrangheta. Si chiama don Giacomo Panizza e la sua storia è stata raccontata davanti a milioni di italiani. Bresciano di origine, don Gi...
Lo Bianco, Giuseppe
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Mascali, Antonella
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