Gli ambiti di interesse sono edilizia, appalti pubblici, appropriazione di fondi ministeriali, industrie, commercio illegale, traffico di stupefacenti, licenze, contrabbando e ogni grosso ambito in grado di generare ricchezza. I metodi per ottenere tutto ciò sono ricettazione, corruzione, estorsione, violenza, sequestro, intimidazione, omicidio… Senza assoggettarsi a nessuna regola se non quelle interne al clan di appartenenza e senza guardare in faccia nessuno con la sfacciataggine e l'arroganza di chi si sente in diritto di essere al di sopra di ogni imposizione. Questi sono gli affiliati della mafia, rispettosi solo delle gerarchie interne, dell'onore, pronti a tutto per dimostrare lealtà verso il "boss". Non si deve pensare alla mafia come un problema confinato al sud Italia, perché le affiliazioni mafiose coinvolsero anche il nord e il centro Italia soprattutto tra gli anni '70 e '90. Tra il 1985 e il 1988 si svolsero alcuni processi penali definiti "Maxiprocessi" per il numero elevato di imputati che arrivarono ad essere 475 in quello di Palermo, e che si concluse con numerose condanne ad ergastolo. Ma chi erano i veri capi che comandavano e tenevano le fila delle organizzazioni? Potrà stupire il fatto che nel momento di maggior potenza della Mafia, alcune delle queste menti criminali più alte gerarchicamente come, solo per fare alcuni nomi,
Raffaele Cutolo,
Salvatore (Totò) Riina o
Bernardo Provenzano, erano contadini con la sola licenza elementare o poco più. Come riuscivano allora a manovrare una tale e spietata macchina da soldi con tanto potere da permettersi di sfidare apertamente alte cariche dello Stato, soprattutto magistrati, giudici, forze dell'ordine, politici, ma anche giornalisti scomodi, compiendo efferati omicidi e attentati culminati con l'omicidio di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone nella strage di Capaci del 1992, in cui la violenza dell'esplosione fu un chiaro segnale di fin dove poteva spingersi la Mafia.