Non si sa bene se il film sia tratto da una storia vera, perché deriva dal racconto di Wolfgang Kohlhaas "Erfindung einer Sprache – Invenzione di una lingua". Kohlhaas sostiene che la storia gli sia stata raccontata tempo addietro ma non ci sono documenti o testimonianze dirette. Eppure il film di Perelman rende la veridicità molto plausibile. E' affascinante pensare come la necessità, il pericolo per la propria vita riesca a rendere l'uomo così abile da riuscire a inventare anche ciò che non conosce. Cinque parole al giorno e una tecnica mnemonica strabiliante. Quanto basta per salvarsi la vita. Un elogio al valore della memoria, un concetto che si può facilmente ampliare al valore della memoria storica. Ma in questo film è interessante anche il rapporto tra prigioniero e carnefice, un rapporto che cresce e si sviluppa ogni giorno di più. Un rapporto che rasenta l'amicizia per le confidenze che il nazista rivela all'ebreo e che al posto di basarsi sulla fiducia è invece fondato su un raggiro, una menzogna. Forse se i due si fossero incontrati in circostanze completamente diverse avrebbero potuto stabilire un punto di contatto alla pari. Forse, se non ci fosse stata la guerra e l'assurdità dell'odio razziale. E invece l'ebreo sembra sempre una volpe braccata, che studia nuovi stratagemmi per salvarsi.
Il senso di tensione, di ansia vissuta dal protagonista viene trasmessa nello spettatore, che teme per la sua vita e che alla fine ha quasi un moto di pena per il nazista che sognava di emigrare e di aprire un ristorante, cercando forse di essere un uomo migliore e lasciandosi alle spalle i cadaveri che ha condannato. Invece arriva la sorpresa, il disincanto, la disperazione e la giusta pena.