Chi era Adolf Eichmann?
Questa domanda torturava in quel lontano aprile del 1961 le meningi di numerosi giornalisti radunati nell’aula del tribunale di Gerusalemme. Le vittime del tenente colonello delle SS, milioni di ebrei, non avevano bisogno delle sue presentazioni, lo conoscevano e lo temevano come nessun’altra persona al mondo. Alcuni personalmente, moltissimi altri più per l’infernale voce che correva di ghetto in ghetto, di lager in lager. Anche i suoi ex-commilitoni, simpatizzanti e fiancheggiatori nella clandestinità tedesca e argentina potevano farsi un quadro di chi fosse quell’ SS considerato un genio della gestione della “questione ebraica”. Ma anche nel loro caso spesso si mescolavano realtà e fama di un personaggio che taluni considerarono, malgrado il suo grado infimo di ufficiale, addirittura il numero due del RSHA (Reichssicherheitshauptamt), dopo Heinrich Himmler. A questi si aggiungeva un esiguo gruppo di insider, uomini dei servizi segreti, cacciatori di nazisti che con acribia avevano raccolto informazioni su informazioni, voci su voci – all’inizio spesso fuorvianti poi sempre più precise – fino ad ottenere una vaga immagine dell’uomo. La maggioranza dei cittadini del mondo era invece, allora nel 1961, pressoché ignara di chi fosse quel SS su cui correvano a lungo imprecisioni onomastiche più o meno sorprendenti: Elckmann, Elchmann per il nome di famiglia, Karl Adolf, Karl, Otto per il nome di battesimo – il certificato di nascita parla di Otto Adolf Eichmann, il nome Karl Adolf era quello del padre.
Ritorniamo ai numerosi giornalisti che erano presenti nell’aula del tribunale o in collegamento audio nelle sale adiacenti. Tra di loro vi si trovava una persona che, per formazione filosofica, per esperienza personale e per un senso di responsabilità individuale e collettivo si stava ponendo e riproponendo la stessa domanda, giorno dopo giorno, man mano che il processo avanzava. Chi era Adolf Eichmann veramente? Quel fanatico nazista in cui l’odio antisemita sembrava essersi incarnato? Quell’atroce, glaciale sterminatore di milioni di vite dal viso elegante di viveur? O addirittura la personificazione diabolica del genio del male? Hannah Arendt dovette, come tutti gli altri astanti, vivere con estremo stupore lo stridente contrasto che correva tra la narrazione dei pochi ebrei scampati allo sterminio e la scena che si trovava di fronte: un omuncolo raggrinzito dall’aria di un topo in gabbia, con occhiali spessi dietro ai quali guizzavano due occhi, quelli sì cattivi; rispondeva con sollecitudine da impiegato subalterno alle domande della corte in un tedesco buffo intriso di perifrasi in “burocratese”. Il personaggio rivendicava inoltre una sua sostanziale estraneità alla decisione di farla finita con gli ebrei una volta per tutte. A suo dire era soltanto un piccolissimo ingranaggio nella mostruosa macchina annientatrice, una specie di ragioniere ferroviario che compilava le tabelle di marcia verso i lager, un passacarte, portaborse prima di Heydrich, poi di Himmler. Eichmann - questa la conclusione della Arendt – si dimostrava quindi come un uomo che non pensa (nel senso arendtiano di interrogarsi su ciò che ognuno fa), un essere insignificante, perciò, verrebbe a dire banale, eppure autore di un male tanto mostruoso?
È noto lo scandalo che ha prodotto la definizione di Hannah Arendt circa la “banalità del male” al di là di incomprensioni sul suo significato volute e non volute e le conseguenti rotture di vecchie amicizie care alla stessa filosofa. Quel che passava come messaggio dalla grande fortuna era il giusto (lo ribadisce anche l’autrice di questo libro) convincimento che nelle società di massa totalitarie del XX secolo le più efferate e disumane mostruosità venivano perpetrate, progettate sì da dittatori sanguinari, ma anche da una miriade di piccoli artigiani, burocrati del male volonterosi e arrivisti che di certo non si erano spesso, se non mai, posto il problema della propria responsabilità, esecutori ignavi ed infami. L’immagine dato da Eichmann durante il processo sembrava voler smentire l’immagine del demonio ossessionato diabolicamente da un odio calcolatore che ha portato 6 milioni di uomini al loro annientamento.
E se non fosse proprio così? Se il ruolo di Eichmann durante il processo di Gerusalemme non fosse semplicemente dato ma recitato, creato ad hoc dallo stesso SS-Obersturmbannführer? E qui che cominciano le ricerche di Bettina Stangneth e anche in questo caso con una domanda: Chi era Adolf Eichmann PRIMA del processo di Gerusalemme? Quel che emerge è veramente sorprendente. Attesta allo stesso criminale nazista un’incredibile capacità mimetica, doti di millantatore non comuni e una brama di arrivismo smodata. Quel che colpisce di più è che fu lo stesso Eichmann a lavorare consapevolmente con estrema abilità – riconosciutagli dagli stessi collaboratori - alla nerissima fama di “zar degli ebrei”, reputazione che lo precedeva in tempi di guerra in ogni villaggio, in ogni città abitata dell’Europa occupata. Lo specialista della “questione ebraica” continuò a curare quest’immagine e a vantarsene anche in clandestinità, mimetizzata in Germania e poi manifestata apertamente presso i fuggiaschi nazisti in Argentina. Mai una parola per sminuire il suo ruolo di responsabile numero uno della soluzione (finale), Eichmann restava fedele all’immagine di sé e allo spirito delle SS. Questo FINO al processo di Gerusalemme appunto. Dopo il direttore d’orchestra ha cambiato drasticamente partitura.
Bettina Stangneth si è fatta carico di esplorare il volto ancora più nero di un uomo che della simulazione e automistificazione ha fatto se non una ragione di vita, un formidabile strumento di ascesa sociale e di potere personale.
Seguire le tracce dell'Obersturmbannführer Eichmann ha per il lettore inoltre il pregio di poter calcare le orme di un'autentica spy story.