Una famiglia ebrea come tante negli anni della Seconda Guerra mondiale trova rifugio sui colli appena fuori Roma, lontana da casa, e dai propri affari, e tenta di scampare ai rastrellamenti nazisti in città, con l’angoscia e la paura di essere riconosciuta e denunciata.
Lia Levi ci conduce nell’universo psicologico di chi ha dovuto sopportare tutto questo e di chi ha saputo rialzarsi e ricostruirsi una nuova vita. Ma il futuro rimane incerto e fragile, se non si affronta il proprio passato, ed è proprio questa riflessione dell’autrice che mi ha colpito: possiamo dimenticare un passato così straziante che gli stessi personaggi vorrebbero rimuovere dalla loro coscienza? Non è forse necessario affrontare ciò che è stato la shoah? A quali conseguenze possiamo andare incontro se non si attua una vera e profonda riflessione sulla propria storia personale e collettiva?
Consiglio questo libro perché oggi ricorre il Giorno della Memoria, e perché questa narrazione mi ha fatto pensare al concetto di oblio, parola chiave di tutto il romanzo: negli ultimi anni sono state formulate teorie sull’eccesso di memoria che, al pari della dimenticanza, potrebbe diventare un rischio se strumentalizzata, generando odio e desiderio di vendetta tra i popoli.
Il romanzo della Levi è per me un antidoto a quell’eccesso di memoria spesso vissuta come commemorazione vuota e retorica del passato; l’autrice ci invita a conoscere e a fare i conti con le sofferenze del popolo ebreo e di tutte le vittime del nazi-fascismo, chiede un confronto, un dialogo autentico che sappia affrontare il ricordo di ciò che è stato depurato da ogni mistificazione.
La costruzione di una memoria storica, capace di affrontare il passato senza inganni e senza eccessi, credo sia possibile anche attraverso la lettura di opere come questa: è la forza della letteratura.