La lingua senza frontiere

Fascino e avventure dello yiddish

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Andras
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Ultimo aggiornamento: 15/06/2024

L’Angelo della Storia – quello citato da Walter Benjamin e dipinto da Paul Klee – rivolgendo il suo sguardo terrorizzato verso il passato, ha visto innumerevoli tragedie, olocausti, estinzioni di popoli e civiltà. Difficilmente avrà individuato l’inabissarsi di una cultura ed una lingua fiorente nel giro di meno di mezzo secolo. Eppure è ciò che è successo – l’angelo non poté ancora coglierlo a pieno nel 1938 – nei decenni a cavallo della metà del 20º secolo proprio in Europa. Parliamo della civiltà dell’”ebraismo orientale”, ossia quelle comunità di ebrei viventi nell’Europa centro-orientale (Polonia, Paesi Baltici, Bielorussia, Ucraina, ma anche ex Cecoslovacchia, Ungheria e parte della Romania) che si distinsero per l’uso dell’idioma chiamato yiddish.
Questa lingua millenaria parlata abitualmente da gran parte degli ebrei del nostro continente ha avuto una storia segnata da molti accidenti, contrasti e contraddizioni, ha faticato molto per essere riconosciuta come vernacolare e lingua letteraria avente pari dignità degli altri idiomi europei. Spesso rispecchiava la sorte e il destino dell’intera comunità dei suoi parlanti e delle loro scelte culturali identitarie. Il suo cammino lungo i secoli è oggetto del libro di Anna Linda Callow La lingua senza frontiere.
L’autrice ci accompagna nella nascita delle comunità ebraiche nella regione della Renania a partire dal IX secolo per mano di immigrati provenienti dalla Francia e dall’Italia del Nord. Questi erano commercianti, ma anche dotti studiosi talmudici, e adottarono per motivi professionali e sociali la parlata locale, un tedesco alto-pieno medievale. Questo volgare si trovò arricchito da numerosi termini di origine ebraica, la lingua dell’Antico Testamento. Pertanto lo yiddish (o loshn Ashkenaz) può dirsi anche una – la principale - tra le lingue giudaiche sviluppatesi nella diaspora poiché va scritta in caratteri ebraici.
Lo spostamento degli ebrei ashkenaziti dalla Germania verso est avvenne in un arco di tempo molto lungo che va dai pogrom della 1ª crociata (1096-1099) fino alla colonizzazione dell’Ucraina da parte dei nobili lituani e polacchi (ca. 1650-1750). Con esso si spostava anche l’idioma ashkenazita che trovò il suo territorio d’elezione proprio in queste regioni arricchendosi pure di termini e forme slavi. La colonizzazione dell’est fu accompagnata dal fenomeno di un audace programma di urbanizzazione, che si risolse nella fondazione di città vere e proprie, ma soprattutto di borghi abitati a maggioranza da ebrei. Fu l’ora di nascita dello shtetl, diminutivo yiddish di shtot, città (in tedesco Stadt). Nella coscienza degli ebrei dell’Europa orientale lo shtetl è un modo di vivere specifico, uno spazio ebraico intimo e familiare, che a seguito conobbe una sua celebrazione miticizzata in numerosi racconti e nei quadri di Marc Chagall.
Data la fortissima compenetrazione nella vita quotidiana tra insegnamento biblico-talmudico e la lingua d’uso, nei primi secoli i testi in yiddish appartenevano in gran parte alla sfera religiosa ed etica. Si dovette aspettare una tra le correnti più significative dell’ebraismo, il chassidismo, perché si allentassero i vincoli morali dei rabbini su una più ampia produzione letteraria profana. Paradossalmente il movimento, fondato nel ‘700 dal guaritore e maestro Ba’al Shem Tov, si distinse per il suo esoterismo e per la sua carica mistica e devozionale, ma la convinzione dei suoi adepti che lo zaddik (il giusto) abbia la capacità di scoprire verità profondissime in qualsiasi genere di narrazione, dovette favorire le raccolte di racconti, prima dallo sfondo mistico, e poi, dai contenuti sempre più laici. Per i chassidim le versioni in yiddish erano comunque qualcosa di più di semplici traduzioni di servizio; esse conferivano alle due lingue, l’ebraico biblico e lo yiddish, pari dignità.
L’uso sempre più secolarizzato dello yiddish scritto s’incontrò nel corso del 18º secolo con l’Illuminismo ebraico (Haskalah) che avrebbe favorito per decenni l’erosione del mondo di vivere tradizionale e l’abbandono delle scuole talmudiche da parte di schiere di giovani che cominciarono a cimentarsi sui modelli dei grandi autori europei.
Ebbe così inizio l’età aurea della letteratura yiddish (metà 19º secolo) con i suoi grandi rappresentanti: Mendele “il venditore di libri”, Sholem Aleykhem e Isaac Leyb Peretz. Tutti i tre gli scrittori, provenienti dalla Russia, Ucraina e Polonia, furono profondamente immersi nel mondo yiddish delle shteteleh orientali e lo dipingevano con una tavolozza ricchissima, variopinta, multipla e coloratissima di bellezze sfavillanti e sconcertanti brutture.
È un mondo in pieno sconvolgimento: sommovimenti geopolitici causarono ansie, paure che le popolazioni maggioritarie dell’Est scaricavano in tremendi pogrom nei confronti degli ebrei (1881 e 1905). Ad essi si accompagnano le scissioni all’interno delle comunità stesse tra tradizionalisti, secolarizzati e sionisti.
Questo clima di estrema insicurezza concorre alla decisione di molti ebrei di lasciare l’Europa per mete lontane ma più sicure. Tra il 1881 ed il 1925 si trasferirono così ben 2 milioni di ebrei negli Stati Uniti.
Coloro che restarono, e fu la stragrande maggioranza, porsero ancora fiducia nei meccanismi salvifici che le comunità avevano sperimentati secoli dopo secoli e nelle magnifiche sorti progressiste che trovarono la loro maggiore espressione nell’Unione generale dei lavoratori ebrei di Lituania, Polonia e Russia, il Bund. Essere bundista diventò una particolare declinazione dell’identità ebraica che comprendeva l’adesione al socialismo e alla cultura yiddish in uno spazio sociale di intensa attività intellettuale, editoriale e educativa.
Nel 1939 il numero degli ebrei di origine ashkenazita sparsi nel mondo era oltre 15 milioni (soltanto due milioni furono messi insieme sefarditi, italiani e orientali). “Di quei 15 milioni, circa 11 milioni erano di lingua yiddish. Ne furono uccisi in numero tale e in così breve tempo che anche la loro lingua fu quasi cancellata dal novero degli idiomi d’Europa. Il mondo ashkenazita descritto nella letteratura yiddish andò in pezzi, insieme al resto dell’ebraismo europeo, e con esso esplosero 2500 anni di speculazione occidentale sull’etica.” (Anna Linda Callow). Oggi si stima che lo yiddish sia parlato quotidianamente da circa 400.000 persone, che vivono prevalentemente nelle comunità ortodosse degli Stati Uniti ed d’Israele.

Consigliato da
Andras
L’interesse per lo yiddish ha una duplice, seppur sfumata radice, toccando le corde sentimentali, ossia, musicali , e quelle razionali di stampo culturale. Quando da adolescente mi dilettò nella visione del film di Bob Fosse Cabaret assistetti alla nota scena tra il cripto-ebreo Fritz Wendel e la prostituta, Natalia Landauer, ebrea dichiarata. Il dialogo tra i due protagonisti era segnato da un continuo intercalare, da parte della Landauer dell’appellativo jingele ossia iungele (tedesco Jüngling), che significa giovincello, giovanotto. L’uso del diminutivo (nello yiddish giovane si dice iung) non ha soltanto la funzione di rendere la dimensione, ma anche di connotare il soggetto di un suo colorito affettivo. Tutte due le dimensioni mi colpirono al punto che, pur non avendo ancora avuto contatti veri propri con la lingua (a parte alcune locuzioni passate nel tedesco), mi lasciarono attratti da quello che intuivo non essere semplicemente una declinazione della cultura tedesca, ma di una vera e propria civiltà a se stante.
Su quel sotterraneo rigagnolo di fascinazione si impiantò poi l’interesse culturale e storico per lo yiddish, come strumento di comunicazione e scrittura adottato dalla stragrande maggioranza della diaspora europea (11 milioni nei confronti dei 2 milioni di ebrei sefarditi ed italiani). Veicolo di conoscenza, saperi e costumi ed usi millenari, è da considerarsi una lingua moderna a tutti gli effetti; lo yiddish era alla base di una civiltà, quella dell’ebraismo europeo centro-orientale, ormai scomparsa in gran parte dal nostro continente dato che i 5 milioni di ebrei sopravvissuti alla Shoah hanno lasciato i luoghi di residenza millenari per Israele e gli Stati Uniti. La loro lingua è, accanto ai numerosi cimiteri delle comunità israelitiche estinte, l’unica vestigia rimasta di questo mondo che aveva arricchito per secoli la cultura europea regalandole poeti, letterati, scienziati, artisti e rendendola più variopinta e complessa con la presenza delle comunità di semplici fedeli. Come ben dimostra Anna Linda Callow la loro cultura e la loro lingua furono, nei due millenni passati spesso la cartina di tornasole della nostra e della loro identità culturale, della nostra capacità di accoglienza e della loro di integrazione, e, aihmé, delle nostre ricadute nella barbarie e la loro strenua e disperata lotta per la sopravvivenza.
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La lingua senza frontiere

: fascino e avventure dello yiddish / Anna Linda Callow
In questi ultimi anni lo yiddish ha suscitato un crescente interesse in tutto il mondo, eppure solo...
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