Il mare non bagna Napoli, ed i caldi riflessi di luce che si riverberano sulla sua superficie non squarciano il buio, non temperano il gelo che regna tra Pozzuoli e Portici. Anna Maria Ortese compie questo suo viaggio, datato 1953, nella Città involontaria quasi suo malgrado, involontariamente. E una discesa agli Inferi della sua città, come quella che migliaia di anni prima i viandanti mitologici compivano per mano della Sibilla cumana alla ricerca della verità.
Una verità, quella di Napoli, dolorosa, fatta di vicoli stretti, umidi e fangosi, mai baciati dalla luce che regna irraggiungibile altrove con “freddo, livido chiarore senza sole” dove le creature rintanate in grotte, in bugigattoli, costrette alle relazioni sociali che occupano giusto lo spazio antistante il basso da loro abitato. Uomini, ma soprattutto donne e bambini percepiscono il mondo come attraverso una lente grigio sfocante che rende sopportabile la realtà, e appena acquistano – attraverso il costosissimo dono di occhiali correttivi – la vista, svengono sopraffatti. Un’esistenza nella quasi-cecità che sembra preservare dalla visione di una realtà che offende troppo, più che per l’eccesso, per l’assenza di luce e di speranza. La vita scorre senza prospettiva, piatta come un elettrocardiogramma di un morto e morte sono le esistenze stesse dei protagonisti, non soltanto nei bassi di Napoli ma anche nei quartieri della piccola media borghesia, “una gioventù malaticcia e disoccupata, con poche ambizioni, pochi sogni, poca vita”. Soprattutto la donna appare come condannata ad una vita già incompiuta, in giovane età come anche all’annunciarsi dell’invecchiamento. Le vite di zitelle – Nunzia ed Anastasia - relegate ad accudire le nipoti ed i nipoti, figli di una sorella sposata, o quelle di madre, signora di casa che nella grama esistenza di una vita spesa a servire trae l’unica consolazione dall’avvilimento degli altri, dalla mortificazione della sua figlia non sposata.
Il gelo si fa ancora più pungente, il colore da livido volge in un nero cavernoso al varcar la soglia di un complesso architettonico mastodontico, lungo mezzo chilometro, a tre piani con più di 87 grandi finestre. Queste ultime sono cieche, sbarrate con tavoli di legno, di cartone come unica difesa contro il freddo. Queste paratoie trasformano il luogo in una tomba perenne dove l’odore di piscia ed escrementi, di muffa ed umido soggiogano l’olfatto umano. In queste vene sotterranee spostate in superficie si muovono esseri umani ormai allo stato larvale, vecchi, adulti ma soprattutto giovani e bambini segnati dalla mancanza di luce, di cibo, di affetto. In cambio la vita li ha provvisti di rachitismo, tubercolosi e sifilide. Non sono più napoletani, non sono nemmeno uomini. Nei Granili – così la Ortese – si assiste alla caduta di una razza, alla putrefazione di una parte della città.
Viene stracciata definitivamente la cartolina di Napoli tutta “sole e mare” e dello scugnizzo simpaticone, povero ma buono. Quando ci si addentra nei bassi partenopei la miseria sociale diventa anche morale e fisica, prevaricazione, prepotenza, insensibilità, ebetudine, bruttura, mostruosità fisiognomica.
La seconda parte del Mare è un ritratto degli amici del Gruppo Sud, quei giornalisti, intellettuali o semplicemente giovani che della rinascita di Napoli – e in un più vasto ambito del Meridione – si erano fatti già subito dopo la guerra propulsori attraverso un’intensa attività editoriale. Siamo con il racconto di Ortese già al capolinea della breve esperienza, breve ed infine fallimentare per il trionfo della corruzione, del clientelismo, della spartizione partitica del potere, vizi incarniti nel tessuto socio-culturale della città dominata dal Laurismo. Ed il tono è quello di un matrimonio fallito, sia per le parole crude, ormai prive di illusioni, sia per il carico di impietoso realismo con cui la scrittrice rievoca i difetti, anche fisici, dei propri compagni di disavventura, Luigi Compagnone, Giuseppe Patroni Griffi, Raffaele La Capria, Vasco Pratolini, Francesco Rosi, Domenico Rea ed altri. Non è certamente casuale il fatto – come racconta l’Ortese – che fu Elio Vittorini a consigliarle di pubblicare il saggio in chiaro, citando per nome e cognome i protagonisti. La disavventura dopo pochi anni si era trasformata in dismissione, in disimpegno, in un approdare, per molti, quasi tutti, a lidi molto più comodi, soleggiati, più rassicuranti e disincantati come dimostra anche la diaspora geografica dei membri del gruppo. Lo squarcio violento, coraggioso e doloroso e insopportabile è durato giusto quell’attimo, giusto quegli anni tra il 1945 ed il 1950, nel momento sociale, culturale e morale e fisico più terrificante della città quando il pus, l’ascesso e la vena putrida erano emersi in superficie. Con l’arrivo della ricostruzione e poi del boom economico i mali di Napoli si incancreniscono, tornano a livello subcutaneo, dove il tumore della camorra pervaderà in modo parasitario il vivo tessuto della città. "Tutti erano caduti, qui, quelli che avevano desiderato pensare ed agire, tutte le lingue si erano confuse ed erano andate a incrementare la dolorosa vegetazione umana. Questa natura non poteva tollerare la ragione umana, ... ."
A proposito della diatriba che provocò la pubblicazione de Il mare non bagna Napoli tra gli intellettuali partenopei del tempo e l'esilio volontario di buona parte del gruppo al termine dell'esperienza della rivista si vedano due articoli
Nello Ajello, Ortese Spacca Napoli, la Repubblica, 15/05/1994
Nello Ajello, I duellanti di Napoli, la Repubblica, 21/05/1994
Nello Ajello, Ortese Il paradiso dei dannati, la Repubblica, 11/03/1998