Galizia

Lettere tedesche, yiddish, polacche e ucraine per colorare una regione

Creato da:
Andras
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Ultimo aggiornamento: 16/11/2023

Eppure la Galizia ha sempre avuto una forza d’attrazione straordinaria, che la pervade ancora oggi, ecco, si potrebbe persino dire che da quando la regione è scomparsa dalle carte geografiche il suo fascino è addirittura aumentato. In effetti, nonostante tutte le sue tragedie, la Galizia è stata una regione estremamente ricca dal punto di vista culturale e ha esercitato importanti influenze a lungo percepibili anche in Occidente. Regione cuscinetto tra Mitteleuropa e l’Europa orientale, la Galizia si trovò sempre integrata nell’interazione con le regioni adiacenti e irradia la sua aura ancora oggi ben al di là del suo spazio geografico storico. Questa circostanza si rispecchia nelle prospettive e narrazioni polacche, ucraine, ebraiche e austriache e rende la Galizia ancora oggi una tra le regioni maggiormente mistificate d’Europa ed una terra feconda soprattutto in campo letterario.
Leopold von Sacher-Masoch, nato a Leopoli (Lviv, Lvov o Lemberg), analogamente a Joseph Roth, Bruno Schulz, Gregor von Rezzori, Karl Emil Franzos e tanti altri narratori rapiti da questo universo dal singolare fascino etnografico, così scriveva in una pagina autobiografica del 1887. “In un paese come la Galizia ove da secoli si trovano confessioni e nazionalità tanto diverse, è quasi implicito tollerarsi a vicenda. In un territorio nel quale Polacchi, Russi, Piccoli Russi, Romeni, Ebrei, Tedeschi, Armeni, Italiani, Ungheresi, Zingari e Turchi unitariamente convivono e che, per quanto attiene alle religioni, accoglie cattolici greci e romani, ortodossi greci e armeni, lipovani, duchoborziani, ebrei, karaiti, chassidim, luterani, calvinisti, mennoniti, maomettani e pagani, non vi può essere alcun odio razziale, alcuna persecuzione religiosa e neanche alcun antisemitismo”. La visione di Sacher-Masoch appare sicuramente edulcorata da quel mito asburgico che lo affascinò sin da adolescente. Esso coglie comunque l’estrema ibridità culturale di questo territorio – la Galizia fu di fatto da sempre terra di assimilazione: ebrei assimilati tedeschi o polacchi, tedeschi assimilati polacchi, ruteni assimilati russi ecc.
Leopoli, Ringplatz
Un ricordo similmente trasfigurato dalla lontananza topografica e cronologica dispiega in Il mondo di ieri, ricordo di un europeo , l’ebreo viennese Stefan Zweig. L’apoteosi del vecchio mondo della Felix Austria dove, “ognuno sapeva quanto possedeva e quanto gli era dovuto, quel che era permesso e quel che era proibito: in cui tutto aveva una sua norma, un peso e una misura precisi” getta anche le sue ombre sulla provincia più ad est della monarchia dove la longa manus protettrice dell’imperatore veglia sulla pace, sull’incolumità, sul benessere e sulla giustizia dei suoi popoli.
Sempre per restituirci la vivacità e ricchezza culturale della regione, la sua unicità e, in un certo senso, la sua distanza dalla modernità, sentiamo Joseph Roth nel suo reportage dal titolo Viaggio in Galizia (raccolto nel volume Viaggio ai confini dell’Impero, 1924): “La Galizia vive in una solitudine trasognata, eppure non è isolata: vi è più cultura di quanto le sue insufficienti fognature farebbero pensare; il disordine è notevole, le singolarità lo sono ancora di più”.
Fu proprio lo scrittore ebreo di lingua tedesca, nato a Brody, distretto di Leopoli, a cantare malinconicamente le sorti della sua terra natia. Nei resoconti di Viaggio ai confini dell’Impero la Galizia diventa lo spazio commemorativo della Prima guerra mondiale e nostalgico della multietnica monarchia asburgica. La sua carta cognitiva si trasforma in una utopia retrospettiva che sfocia nella mitologizzazione della storia. Là, nei territori tra i fiumi San e Nistro, Roth riscopre nell’Ostjudentum (comunità ebraiche dell'Europa centro-orientale) la sua origine, le sue radici sociali e religiose. D’ora in avanti la Galizia della sua infanzia occuperà la maggior parte del suo spazio narrativo: essa costituisce la cornice topologica e cronologica, ma anche la linfa sulla quale nascono e di cui sono imbevute le sue future opere: il mondo degli ebrei galiziani con le loro tradizioni e superstizioni religiose, pilastri e dighe identitarie contro i loro destini di “senza patria” emerge nella storia di un uomo semplice come Giobbe; nel capolavoro La marcia di Radetzky la natia Brody diviene il luogo, in cui l’ultimo rampollo della asburgica famiglia dei von Trotta, l’ufficiale Carl Joseph, vive l’incipiente catastrofe della Prima guerra mondiale che decreta la fine sua e quella della monarchia; ne Il peso falso, storia di un verificatore dei pesi e delle misure Roth ci porta nel lembo estremo della Galizia, al confine con l’impero zarista dove l’illegalità è imperante e dove assistiamo alla corruzione dell’ufficiale amministrativo Eibenschütz, ebreo assimilato – Hannah Arendt direbbe un paria - estraneo ormai al mondo ed ai valori dei suoi padri. Fragole – trovato fra le carte inedite –, si presenta infine come un’autentica, incantevole novella popolata di sarti, vetrai e ciabattini colti nei loro shtetl galiziani. Alla ricerca della sua terra perduta Roth riesce a salvare la memoria di una mitica Heimat, racchiudendola nel prezioso scrigno di un racconto poetico e nostalgico come una ballata yiddish.
Ma Galizia – si direbbe quasi uno spazio vuoto da riempire - fu anche la terra d’elezione delle altre due etnie maggioritarie, quella polacca ed rutena (ucraina). Ambedue i popoli videro in essa una sorta di culla della loro civiltà, patria che a seconda delle vicissitudini belliche veniva donata o usurpata dagli occupanti invasori. I viaggi intrapresi da scrittori polacchi ed ucraini diventano così occasione per la celebrazione nostalgica delle proprie radici, come avviene in Il mondo dietro Dukla di Andrzej Stasiuk – autore polacco ma di origine ucraina.
Anche il Viaggio in Polonia del medico Alfred Döblin (1924) parte da una motivazione simile a quella di Joseph Roth. L’autore del bestseller Berlin, Alexanderplatz era anch’esso figlio di ebrei assimilati (in terza generazione), trasferitosi in Pomerania. Dopo aver assistito al pogrom del quartiere ebraico di Berlino, lo Scheunenviertel (1923), lo psichiatra-scrittore comincia ad interessarsi dell’Ostjudentum dei suoi avi. Ma al di là della ricerca delle origini polacco-galiziane Döblin esplora lo spazio galiziano – la capitale Leopoli e il distretto petrolifero di Drohobycz - nella sua dimensione postcoloniale, postmonarchica, con una lente realistica, critica, per niente trasfigurata nel passato, sulle condizioni socio-politiche e socio-economiche della popolazione multiculturale e multietnica. Da questo angolo di osservazione egli non tarda di cogliere la gravità del conflitto etnico-culturale tra polacchi e ruteni (ucraini) che, a suo dire, era precedente alla stessa monarchia austro-ungarica e che sfociò nel 1919 nello scontro armato. Da allora il governo polacco si prodigava nel tentativo di una polonizzazione della Galizia orientale che la maggioranza ucraina cercò di contrastare con tutti i mezzi. In mezzo vi erano gli ebrei che pagavano comunque andassero le sorti nazionalistiche un caro prezzo, come nel novembre del 1918 durante il famoso pogrom di Leopoli.
Un altro dato, oltre a quello di essere il capro espiatorio dei due gruppi etnici antagonisti, colpisce l’autore a proposito delle comunità ebraiche: è l’estrema miseria in cui vivono gli ebrei galiziani nei loro quartieri o negli shtetl della campagna. Lo shock culturale è talmente grande da evocare in lui ricordi di un campo di battaglia: fango e sporcizia da per tutto, tuguri, grotte e catapecchie da trincea.

Lepaks, operai ebrei “scremano” il petrolio   Boryslaw, Via Pánska

 

La povertà e precarietà economica della comunità ebraica in Polonia e Galizia – Döblin parla di lavoro improduttivo, di profitto chimerico, di speculazioni, affari truccati e mercato nero, realtà che portano con se epiteti pregiudiziali quali parassiti, scrocconi e sanguisughe – è il prodotto di una politica secolare, di un vicolo cieco che minaccia l’intero Ostjudentum. Le impressioni circa la desolazione, l’arretratezza, lo sfruttamento schiavista capitalistico dei lavoratori ebrei si rafforzano nella descrizione del distretto petrolifero di Dohobrycz e Boryslaw, la California della Mitteleuropa, con la foresta dei suoi pozzi e la terra e l'aria trasudanti petrolio.
Pozzi petroliferi a Boryslaw   Catapecchie del quartiere ebraico 
Spostiamoci ora più a sud, ai confini con l’ex impero ottomano, e incontriamo la regione della Bucovina. Fu anche essa un crogiolo di popoli e religioni e quindi una terra feconda di apporti culturali se non, purtroppo, anche di feroci contrasti interetnici. Essa diede i natali ad uno tra gli scrittori austriaci più poliglotti e dandy del periodo, Gregor von Rezzori. Nato nella Cernowitz austriaca – fu chiamata allora Piccola Vienna e diede pure i natali ad un altro celebre "austriaco" Paul Celan – lo scrittore, attore ed artista rievoca nell’ Ermellino a Cernopol il periodo asburgico della sua terra natia attraverso le disavventure familiari e pubbliche del maggiore Tildy. Figura donchisciottesca, l’ufficiale austriaco viene ricordato attraverso il filtro mnemonico di narratori che ai tempi dell’accaduto erano bambini. Questi che hanno osservato con tanta ammirazione le vicende trattate sono ormai cresciuti, e ricordano le emozioni e sensazioni provate all’epoca dei fatti con uno sguardo inevitabilmente distaccato, ormai privo della meraviglia e dell’incanto infantile di cui hanno nostalgia. Rezzori vuole allora dipingere un affresco nostalgico dei bei tempi andati? Non proprio. Sembra piuttosto volerci dire che il ricordo ha il potere di far rivivere quanto è andato perduto, ma che si tratta di una pratica da intraprendere con cautela. Vivere fossilizzati nel passato, in una bolla idealizzata e impenetrabile, è pericoloso, perché il mondo va avanti, che ci piaccia o no: si può dunque ricordare, e probabilmente anche rimpiangere, adottando però lo sguardo distaccato e ironico di cui l’uomo di mondo – egli fu cittadino dell’Austria-Ungheria, della Romania, dell’Unione Sovietica ed infine di nuovo dell’Austria - è maestro. Si rischia altrimenti di rimanere intrappolati in quella illusione e di perdersi per sempre, come l’ermellino, che, secondo le leggende, preferisce morire piuttosto che sporcarsi il manto.
Czernowitz, residenza arcivescovile


 

Nessun’altra regione assume in sé la quintessenza della vita ebraica dell’Europa orientale con i suoi shtetl, le sue tradizioni e le sue miserie, come la Galizia. Il quadro che ne è stato tratto fu sempre estremamente variopinto, malinconico e si direbbe fuori/senza tempo. La terra che ha visto, assieme alla Polonia, la cancellazione pressoché totale della vita ebraica con il genocidio nazista è stata descritta in gran parte – si direbbe per forza – da esuli, emigranti fortunatamente scappati o sopravvissuti all’Olocausto. Il loro orizzonte commemorativo spaziava e spazia su un mondo scomparso, o in pericolo di scomparire, fatto di ricordi e soprattutto di secolari tradizioni all’insegna dell’obbedienza al dettato della Torah e del Talmud. La loro lingua è prevalentemente lo yiddish, parlato dai ceti popolari della società ebraica orientale e definita con disprezzo dagli ebrei assimilati polacchi o tedeschi  “orripilante dialetto tedesco”. Il distacco forzato – o anche in un primo tempo desiderato quando soprattutto i giovani  lasciarono le ristrettezze sociali, economiche e culturali delle terre paterne immerse nell’oscurantismo e nella miseria per un’Europa centro-occidentale rivelatasi in un secondo tempo matrigna se non trappola mortale – ha lasciato in loro un ricordo nostalgico, a volte trasfigurato, segnato dalla ricerca identitaria ripiegata all’indietro, verso il passato. È il mondo patriarcale che muove l’ispirazione creativa di questi scrittori: il padre, capo famiglia, responsabile dell’educazione religiosa, che viene rispettato ed amato. La figura paterna, saggia e tollerante, diventa così la personificazione della tradizione millenaria, anello garante della trasmissione della fede e della saggezza rabbinica. Quella materna, la Yiddishe Momme, oltre a divenire protagonista di tanti aneddoti dell’umorismo ebraico, è il simbolo della casa, un po’ chioccia, un po’ matrona, che risveglia la nostalgia del “buon mondo antico” e implicitamente il senso di colpa per averlo abbandonato per l’emigrazione.
Famiglia ebraica celebra il PesachBrody, mercato ebraico
La letteratura d’esilio tra le due guerre – debitrice degli innumerevoli spostamento forzati a partire dal 1914 - risentì anche fortemente degli studi sul chassidismo propagati dai famosi Racconti dei Hassidim e Le storie di Rabbi Nachman di Martin Buber. Questa particolare corrente mistica del giudaismo, nata nel XVIII secolo in Polonia per mano del Ba’al Shem Tov, si connaturava per la fede nella totale pervasione della presenza divina – leggibile attraverso calcoli qabbalistici - nella vita quotidiana, santificando qualsiasi suo aspetto. Evadere da questo mondo equivalse spesso  ad una rottura con l’intera comunità, all’infrazione e all’opposizione a leggi granitiche come quelle naturali. Eppure le novità irruppero anche nelle povere case degli ebrei polacchi e galiziani. Ne è un’esempio l’opera di Isaac Bashevis Singer, emigrato già nel 1935 negli Stati Uniti dove continuò a scrivere i suoi romanzi in yiddish, tradotti poi in inglese. Singer si muove dialetticamente tra religione e modernità, misticismo e razionalismo. Caratteristico il suo profondo legame con la mistica ebraica, l’etica talmudica, la tradizione ed il folklore. Ciò nonostante i suoi racconti e romanzi si muovono liberamente dal medioevo alla modernità, dal naturalismo al fantastico e da sensibilità psicologiche alla narrazione mistica. I protagonisti vivono spesso in margine alla comunità ebraica: malati mentali, criminali o prostitute. Molte delle sue storie girano intorno ai temi della sessualità e del sacro nonché del loro rapporto reciproco.
Se con Singer ci troviamo in uno spazio letterario caratterizzato dal confronto tra le due spinte della civiltà ebraica orientale, tradizionalismo e modernismo, ci inoltriamo con l’opera di Bruno Schulz, geniale scrittore e artista galiziano, sul terreno di un mondo letterario fuori tempo. I suoi racconti sono “frammenti di un’autobiografia grottesca-fantastica, in cui l’autore ci guida attraverso i paesaggi irrecuperabilmente perduti della sua infanzia, che mitizza, ma al tempo stesso ritrae con precisione”. Con essi l’autore paradossalmente “maturava verso l’infanzia”. Schulz, che proveniva da una famiglia ebraica assimilata, scrisse in lingua polacca e poneva al centro del suo immaginario letterario proprio la natia Drohobycz. Anche i suoi disegni carichi di un erotismo cupo, masochista, eppure terribilmente ludico, riproducono nei soggetti e nelle quinte il paese di nascita. Schulz non si era mai allontanato dall’ambito tematico dell’infanzia in una piccola città. “Sebbene avesse studiato per due anni all’Accademia di belle arti di Vienna, soggiornasse spesso a Leopoli e una volta avesse persino fatto un viaggio a Parigi, non riuscì mai a liberarsi dal sortilegio di quella provincia, con le sue strade vuote e le sue ore vuote, con i mucchi di spazzatura e le ville cresciute a dismisura” (Artur Sandauer).
Il mondo ebraico galiziano, come quello europeo orientale in genere, sembra muoversi per destino tra il mondo di ieri e quello di oggi, tra mistificazione e critica. Fu un mondo certamente problematico fatto di estrema miseria economica e culturale. Vi regnavano spesso sovrani l’oscurantismo e la superstizione religiosi di rabbini , di ciarlatani dai presunti poteri taumaturgici - si pensi alla corte rabbinica di Sadhora (ing.) - accanto ad uno sfruttamento disumano dei lavoratori dei pozzi petroliferi, i Lebak, che giorno per giorno dovettero lottare per la vita. Per dirlo con lo scrittore Wlodek Goldkorn: “[la Galizia] dove contrariamente alla nostalgica vulgata non regnava antica saggezza ma si viveva nell’ignoranza, nella sporcizia, nella disperazione. Dove le donne, oppresse e umiliate, sognavano di fare le serve a Varsavia o a Leopoli o a Cracovia, pur di allontanarsi dalle imposizioni dei maschi anziani, barbuti, ignoranti; e da dove chiunque avesse un minimo di intelligenza, quindi prima di tutti le donne, cercava di fuggire.” (Il bambino nella neve)
Rabbino taumaturgo di Gora KalwarjaEbreo galiziano
A questo dualismo esistenziale si aggiunge la percezione di vivere nella propria patria da senza patria, da polacco o ucraino senza esserlo, o per lo meno senza essere riconosciuto come tale. Già l’amministrazione asburgica ignorava l’esistenza della cultura ebraica, quando rubricava coloro che parlavano lo yiddish – ed era la stragrande maggioranza degli ebrei – tra i germanoglotti. Similmente sentiva Joseph Roth quando sentenziò: “[…] campi a destra, campi a sinistra, a destra il crocifisso, a sinistra un santo e tra i due gli ebrei … attenti a non toccare il crocifisso, a schivare l’effigie del santo, tra Scilla e Cariddi di una fede estranea, volutamente incompresa.” (Viaggio in Galizia)
Senza voler scomodare lo stereotipo degli non ebrei sull’ebreo errante, ricordiamo comunque quella condizione che la Qabbala definisce Gilgul, vale a dire il frenetico movimento delle anime vagabonde che ruotano intorno a noi dopo la separazione dal corpo. Spiriti senza pace evocati dallo splendido racconto autobiografico di Gad Lerner Scintille, l’odissea dei suoi avi tra la Boryslaw galiziana del padre, la Beirut libanese della madre, tra la Haifa, porto sicuro e la Galizia, terra di massacro dei suoi parenti. Esseri errabondi come il nostro Lazik Roitschwantz, piccolo sarto della città di Gomel (Bielorussia) che, divenuto inviso al potere politico, dalla prigione passa ad una esistenza nomade da irregolare, sballottato di paese in paese fino a Parigi, come suo creatore, lo scrittore russo-ebreo Ilja Ehrenburg.
Gilgul di anime erranti perché uccise, trucidate a centinaia di migliaia, se non milioni, anche questa è la Galizia, della Prima guerra mondiale e dei pogrom prima, del genocidio degli ebrei poi. Questa terra è segnata dalla guerra, descritta benissimo dallo scrittore polacco Józef Wittlin in Il sale della terra attraverso l’esperienza del milite contadino hutsul Piotr; è segnata da quei mutilati di guerra, storpi e ciechi, protagonisti del racconto di Joseph Roth nel Viaggio ai confini dell’Impero, che formano un corteo funebre spettrale verso il cimitero di Leopoli. Mordechai Gebirtig (ing.) grandissimo poeta e cantautore yiddish di Cracovia, accenna alla grama sorte di coloro che sono ritornati dalla guerra nella canzone Krigs-invalid (Invalido di guerra) ed il poeta austriaco Georg Trakl diede una testimonianza indelebile degli orrori della battaglia di Grodek, a cui partecipò poche settimane prima del suo suicidio:

I boschi d’autunno rombano a sera
d’armi mortali, e le auree pianure
e i laghi celesti, sui quali rotola il sole
più lugubre; abbraccia la notte i guerrieri
moribondi, il lamento selvaggio
delle loro labbra straziate.

Oh lutto orgoglioso! Altari di bronzo,
un immenso dolore nutre, quest’oggi,
la fiamma cocente dell’anima,
i non nati nipoti.

Georg Trakl, Grodek

Infine è anche terra di massacri indicibili. “Quando irruppe in Polonia l’orda barbarica tedesca il popolo yiddish ha lasciato le sue città e i suoi villaggi, un bimbo nella culla non è rimasto, nessun vecchio abitante è restato al suo posto”, si legge nel Canto del popolo yiddish messo a morte di Itzak Katznelson. Terra vuota tra Auschwitz e Babij Jar, una di quei bloodlands, come li definì Timothy Snyder, o Paesaggi contaminati – per fare ritorno allo scrittore austriaco Martin Pollack - dove a perire fu un’intera civiltà, quella ebraica orientale, ma con essa anche quella storica polacca ed ucraina, magiara e tedesca, russa ed armena, zingara e romena - la prima grande mela, il crogiolo tra l’Occidente ed Oriente d’Europa.

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