Pur non essendo un saggio sull'aspetto ludico del calcio, né propriamente un resoconto di avvenimenti sportivi, consiglio la lettura a tutti gli amanti di questo gioco. Non è, come spesso accade, il ricordo romantico di un qualcosa che non c'è più. È l'analisi attenta e partecipe della mente di un cronista unita al suo cuore di patriota per lungo tempo in esilio.
In questo paese, dal passato contraddistinto da continui stravolgimenti politici e grandi, forse insanabili divari sociali, il calcio, diffusosi inizialmente negli eleganti quartieri e nei circoli di cricket inglesi, diventa presto l'espressione del popolo che vive nei sobborghi poveri.
In un mondo ricco solo per i dirigenti, i giocatori vengono trattati come pedine, sia dai presidenti dei club per concludere affari vantaggiosi, sia dalla politica come veicolo di consenso, in particolar modo sotto la dittatura degli anni dal 1976 al 1983. Ma questi atleti restano i rappresentanti dei quartieri da cui provengono. E i tifosi, che soffrono, gioiscono, contestano e sognano, li accompagnano sui campi da gioco ogni settimana, senza dar troppa importanza al ruolo di chi vuole appropriarsi di uno spettacolo che è di tutti. Il gioco, che l'Argentina ha assimilato dagli inglesi, diventa endemico, con l'aggiunta di eleganza, furbizia e un pizzico di rabbia dovuta all'impulso di inseguire una rivalsa. La storia va avanti per quasi un secolo, tra calciatori leggendari, sconfitte cocenti e successi prestigiosi, spesso discussi. Fino alla vittoria della nazionale nel Mondiale del 1986 e soprattutto a quei due gol di Maradona all'Inghilterra che fanno commuovere una nazione ed entrano nella leggenda: il primo di mano, la famosa "Mano de Dios", il secondo dopo un dribbling che mette a sedere mezza squadra avversaria. Gol che nel mondo intero diventano sinonimo, per l'appunto, di eleganza, furbizia, rivincita.