"Siamo un piccolo paese, ma abbiamo un grande passato", mi disse un signore sul tram a Lisbona, probabilmente per trasmettermi l'orgoglio di chi sa di essere nella storia malgrado le apparenze degli attuali, ridotti confini geografici. Per quel poco che ho visto da turista, ho adorato il Portogallo, un paese dell'Europa mediterranea che non si affaccia sul Mediterraneo. Questo non lo racchiude né lo descrive, ma è significativo a introdurre ai contrasti che si intuiscono in un posto in cui si parla una lingua che suona allo stesso tempo allegra e malinconica; in cui le nuvole che sono là in fondo oscurano il cielo in un minuto e riversano mezz'ora di pioggia, per poi scomparire e lasciare il posto al sole, in attesa di quelle altre nuvole che galoppano minacciose all'orizzonte; l'unico in cui si può accettare un capolavoro come il Palácio Nacional da Pena di Sintra, che stonerebbe ovunque tranne che lì; e dove da trent'anni la nazionale maschile gioca un calcio offensivo senza schierare un centravanti.
Sicché, non appare una forzatura leggere del Portogallo rurale della prima metà del Novecento come di un luogo in cui convivevano senza ostilità due facce opposte: uno spirito cristiano profondamente devoto e i retaggi di un passato imbevuto di credenze e superstizioni, impossibile da sradicare poiché aiutava le persone umili a spiegare tante cose del mondo e della vita. Tanto da ricordare quel miscuglio di cristianesimo e paganesimo che muove il processo ad Antonia nel Piemonte seicentesco della Chimera, con la Chiesa che dall'alto di un tribunale ufficiale soccorre e conforta i villani chiusi nelle loro ataviche paure, esercitando al contempo sorveglianza e controllo.
Ci si ritrova immersi in una zuppa scura, calda e fumante, mescolata di continuo da due mani contrapposte, che girando il mestolo all'unisono ne conservano la giusta viscosità. Si annusano gli odori delle erbe bruciate e degli unguenti, si distinguono i colori delle bacche e dei fiori, ci si perde nelle formule magiche dei riti propiziatori, si è infastiditi dal sole rovente che in estate crepa il terreno in un milione di poligoni irregolari e dal freddo pungente che in inverno frastaglia allo stesso modo il dorso delle mani.
Si vive un romanzo affascinante e oscuro, che sembra riportare molto più indietro nel tempo di quanto non faccia realmente. Osserviamo un Medioevo contemporaneo, per le usanze perdute, per l'atteggiamento sospettoso della gente di fronte a quei segni premonitori che a distanza di qualche decennio non scatenerebbero niente di allarmante, per la curiosità che porta con sé uno straniero giunto in groppa a un asino dopo un lungo viaggio, viaggio che oggi si può coprire in poche ore comodamente seduti in treno. Un ambiente talmente carico di ritualità, paure ancestrali e cieca devozione, che porta lo stesso protagonista a percepire se stesso come impuro e sbagliato, credendo fermamente di non potersi sottrarre a una natura che in realtà gli è stata affibbiata.