L’immane tragedia dei massacri delle foibe e il successivo esodo della popolazione di lingua ed etnia italiana dalle coste nordorientali del Mar Adriatico ha conosciuto tardivamente un suo posto nella memoria istituzionalizzata della Repubblica italiana. A partire dal 2005 si celebra il “giorno del ricordo” istituito con la legge 30 marzo 2004 n. 92, atto a "conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre di istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale".
La breve introduzione che precede la bibliografia vuole evidenziare alcuni punti ormai fermi nella diatribe insorta intorno a questo triste evento. Per una trattazione esausta e meno superficiale rimandiamo ai testi proposti di seguito.
Il riferimento alla pratica di gettare le vittime, morte o ancora vive, negli inghiottitoi carsici, appunto le foibe, ha valore simbolicamente unificante. Di fatti, soltanto una piccola parte degli assassinati furono veramente “infoibati”, mentre la maggior parte dei trucidati venivano deportati e eliminati nei campi di concentramento iugoslavi interni della Slovenia e della Croazia. Questa circostanza assumeva una sua importanza nel dibattito storiografico, fino a poco fa spesso di parte e d’impronta negazionista, circa il numero complessivo degli sventurati (probabilmente intorno ai 5000-7000).
Altrettanto dubbie risultavano le affermazioni che cercavano di circoscrivere le eliminazioni di massa a vittime coinvolte comunque e a vario titolo con il fascismo, mentre la realtà vide – date le motivazioni rivoluzionarie, etniche o semplicemente personali delle uccisioni – l’ecatombe di migliaia di persone innocenti. Altrettanto sbagliato sarebbe limitare il fenomeno degli "infoibamenti" alla sola popolazione italiana. Anche sloveni, croati, serbi e montenegrini venivano trucidati a migliaia in quanto presunti collaborazionisti col nemico - solo a Kočevski rog vennero uccisi 14.000, mentre su tutto il territorio sloveno dell'immediato dopoguerra si calcola che siano "scomparsi" approssimativamente 100.000 uomini. Chi veniva ucciso risultò quindi essere il più delle volte un presunto oppositore del regime comunista e perciò automaticamente un ex-fascista, -domobranci o -ustascia, un presunto intralcio all’uniformità etnica o una semplice vittima di regolamenti di conti di ambito privato. Questa fattispecie non contraddistingueva soltanto gli eventi giuliano-dalmati, ma era propria di tutti gli altri “spostamenti” e deportazioni di massa dell’immediato dopoguerra.
Cause, concause e fattori degli eventi tra il 1943 ed il 1948 risalgono come fiumi carsici all’età della disillusione nei valori illuministi universali e con essa alla nascita dei nazionalismi (intorno alla metà dell‘800). Con il “rinascimento dei popoli”, le loro rivendicazioni di potere nazionale l’Europa assistette alla negazione della possibilità di stati multietnici e, con il progredire dei vari irredentismi, alla contrapposizione sempre più violenta di comunità linguistico-etniche in territori di promiscua convivenza. Gli italiani videro messa in discussione la loro secolare preminenza socio-economica da una parte. Dall’altra le popolazioni slave, sloveni, croati e, in parte serbi, cercarono - forti della “riscoperta” di entità statali d’epoca medievale come precoci simboli della propria nazionalità - di scalfire e rovesciare il “giogo” sociale ed economico delle popolazioni italofone. La polveriera nazionalista era destinata ad una prima deflagrazione con il tramonto dell’Impero asburgico e l’assegnazione forzatamente superficiale di pezzi di terra abitati da una popolazione mista all’una o l’altra conformazione statale. A complicare la situazione furono poi la nascita della dittatura fascista e, con essa, l’applicazione delle forme repressive totalitarie nei confronti di tutti quanti non fossero omologabili a delle “radici” italiche. Le italianizzazioni forzate, le espulsioni delle élite culturali slovene e croate (quasi sempre appartenenti al clero) contribuirono certamente in un territorio non mono-etnico ad una strisciante divisione del consesso civile. Ad acuire il conflitto latente contribuirono inoltre le atrocità di guerra, che a causa delle sue caratteristiche di guerriglia e controguerriglia, risultarono particolarmente devastanti per il corpo e la mente delle popolazioni coinvolte.
Alla fine del 2º conflitto mondiale la popolazione italiana della Dalmazia, del Quarnaro e dell’Istria cadde vittima sostanzialmente di due pretese avanzate dall’esercito vincitore in questa parte dell’Adriatico: quella di avere uno stato totalitario comunista in cui qualsiasi appartenente alla classe dirigenziale vecchia, siano essa quella borghese professionista o ricca contadina, andava eliminato in quanto potenziale oppositore; l’altra di “costruire” un territorio etnicamente omogeneo senza “sacche” culturalmente identificabili con le vecchie élite giuliano-dalmate e imparentate per di più con la vicina società capitalistica della Repubblica Italiana. L’incrociarsi di queste “rivendicazioni” suonava alla fine la campana a morte della secolare civiltà italofona nell’Alto Adriatico orientale.
La pestifera messe, che un secolo di nazionalismi ha lasciato, si era materializzata nel contesto geopolitico postbellico del continente europeo. Entro questa compagine più ampia si iscrivono anche i massacri, le sparizioni e deportazioni delle genti dalmate, fiumane ed istriane.
La fine della Grande Guerra vide, come nelle terre tra l’Isonzo e le Bocche di Cattaro, l’assegnazione, a nazioni vincenti o a stati nazionali di recente costituzione, di territori etnicamente misti, in cui una maggioranza o minoranza culturale dovette integrarsi in un contesto nazionale preminente e nuovo. Gli esempi sono innumerevoli: le terre dei Sudeti (Alta e Bassa Slesia) alla Cecoslovacchia e Polonia; la Moravia e Boemia meridionali con le minoranze germanofone, l’Ungheria subcarpatica incorporate nella Repubblica Cecoslovacca; la Transilvania ed il Banato ungheresi rispettivamente alla Romania ed al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, il Tirolo del Sud all’Italia. In più si erano liquefatti i confini orientali dopo la sconfitta dell’Impero zarista e la successiva rivoluzione del 1917. Il nuovo stato polacco rivendicava ampie fette dell’Ucraina (ex-Galizia e Volinia) spingendosi nella Guerra polacco-ucraina fino a Kiev per poi essere respinto dall’Armata rossa. Anche questa guerra causò repentini spostamenti di popolazione.
Quando la Germania di Hitler salì sul palcoscenico delle potenze europee prese a pretesto dei suoi primi interventi bellicosi proprio l’esistenza – e la presunta persecuzione – delle enclave tedesche nei vari paesi circostanti. Questa politica guerrafondaia culminò con l’occupazione dei Sudeti e la cancellazione della Repubblica Cecoslovacca dalla mappa dei paesi europei. Ne seguivano a ruota le rivendicazioni ungheresi sulla Slovacchia meridionale prima e sul Banato dopo. Con lo scoppio della 2ª Guerra mondiale seguirono le occupazione per mano italiana del territorio sloveno fino a Lubiana e dell’intera costa dalmata dal Quarnaro fino a Castelnuovo.
Le annessioni praticate dai tedeschi e dai loro alleati restarono impresse nelle memorie di popolazioni traumatizzate. L’occupazione della Polonia causò – oltre allo sterminio degli ebrei - la deportazione della popolazione polacca dai territori occidentali di Stettino, Breslavia, Poznan e Lodz verso il Governatorato generale, per poter insediare nella parte annessa al Reich migliaia e migliaia di coloni tedeschi proveniente da Romania, Ungheria, Serbia e Russia sud-orientale.
Il ricordo delle così dette “quinte colonne” che rappresentarono territorialmente delle teste di ponte e politicamente dei casus belli per le forze dell’Asse scatenava, a guerra terminata, contro le popolazioni tedesche, italiane ed ungheresi ondate vendicative di massacri, deportazioni ed esodi forzati che sfociarono un po’ dappertutto in pratiche di pulizia etnica, innescate anche dai comportamenti dei soldati dell’Armata rossa. La più recente storiografia parte comunque dal principio che, di là dalle iniziali vampate di jacqueries popolari, gli esodi in massa siano stati il risultato di espliciti disegni politici da parte dei governi comunisti insediatesi a partire dal 1945 (vedi l’applicazione dei Decreti Beneš nella Repubblica Socialista Cecoslovacca).
Si calcola che tra il 1944 ed il 1946 vi siano stati espulsi più di 12 milioni civili tedeschi dai territori dell’Europa centro-orientale con la morte di almeno 2 milioni a causa delle violenze e condizioni proibitive dei trasferimenti. Sul territorio polacco amputato della parte orientale annessa all’Unione Sovietica e incrementato dell’ex-Prussia orientale si consumava, oltre all’espulsione dei coloni tedeschi, lo “scambio” di popolazioni concordato tra polacchi comunisti e russi con il “rimpatrio” (o meglio la deportazione) di polacchi galiziani verso la Polonia ed ucraini verso l’Unione Sovietica. Questi ultimi, malfidati all’occhio sovietico per la resistenza anti-comunista dell’UPA, vennero dislocati anche nei territori polacchi occidentali secondo il disegno dell’Operazione Vistola (200.000). La stessa Finlandia ha visto lo spostamento di 400.000 careli dai territori occupati dall’Unione Sovietica.
A questi numeri sconvolgenti si aggiungono infine i milioni di appartenenti ad etnie diverse deportate da Stalin durante e dopo la "Guerra patriottica" verso i territori siberiani.
Il secolo breve ha visto già a partire dai suoi albori (armeni, greci, turchi) un indicibile carico di dolore, spargimento di sangue, sterminio. Il primo dopoguerra ha acuito l’atmosfera già di per sé gravida di tragedie fino alla cancellazione di interi popoli: 6 milioni di ebrei e con loro l’irripetibile millenaria esperienza della civiltà ebraica dell’Europa orientale (l’Ostjudentum). A questo armageddon giungono milioni di altre vittime, quasi sempre agnelli sacrificali sull’altare grondante di sangue del folle sogno razzista e nazionalista. La sciagura che colpì gli innocenti istriani, fiumani e dalmati alimentava in parte il fiume rosso che ha attraversato l’Europa del 20º secolo e l’ha sconvolta e deformata in un modo che non si è visto dai tempi della Peste Nera (1364).